Vincenzo Galluzzo - La sera di mezzagosto

Chi pensa alla terra di Sicilia pensa al sole, tiepido d'inverno, già caldo a primavera, feroce d'estate, ialino in autunno. Ne "La notte di mezzagosto", l'immagine della Sicilia, terra del sole, è compromessa, è invece terra d'acqua, anzi di diluvio, di "timpazzu biblico" tanto che l'immaginario paese di Mannarino si trasforma in isola nell'isola diventata più straniante, metempirica, implausibile, ma narrativamente ammaliante, palcoscenico da teatro dei pupi, quasi di cartapesta su cui sorpresi, quanto il lettore, i personaggi tutti stentano a vivere tra morti e dispersi, paura e desolazione, afflizione e speranza. Thanatos crudele ed Eros vitale, forze opposte e indomabili quanto ineluttabili, ora si attraggono ora si respingono e dall'uno si genera l'atro, di pagina in pagina, tra lo squasso degli animi del principe Corsini, della moglie, delle due figlie, del nipote, attorno a cui ruotano l'enigmatica e bellissima Angelica, il marito, un "lacayo", una servitù subdola, i mannarini tutti, costretti a una forzata convivenza a palazzo Ares. In un diciannovesimo secolo atemporale, ogni differenza tra nobiltà e plebe è azzerata dalla cieca e imperturbabile forza della natura, del tutto indifferente alle convenzioni umane, e tutti brancolano affannosamente nell'attesa che cessi il diluvio, come dannati di un girone dantesco, come folli senza bussola in un nuovo mare di una nuova esistenza.
Quindi, un susseguirsi di situazioni impreviste e imprevedibili, grottesche e umoristiche, tra dialoghi seri e ironici, con esiti di brillante"barocca sicilianità", trapuntata di saggezza popolare, di ridicola superstizione, di finta religiosità, di presunta sapienza e profonda ignoranza.
Una prosa scaltra e spesso colorita, sempre controllata, per una storia che scorre agilmente verso un finale inaspettato. E la Sicilia ancora una volta resta inafferrabile. Anche a un siciliano colto come Vincenzo Galluzzo.
Pippo Lombardo