
Connessione: tra sintesi e sìnchisi
di Pippo Lombardo
Connessione: norma moderna, anzi modernissima, mendace in tal senso, infatti è vetusta almeno come scaturigine certa di ogni attività connessa, appunto, alla natura. Connessione quindi congenita alla vita stessa predisposta in ogni sua forma a connettere, etimologicamente intrecciare (nectere) con (cum): e così dal caos materia a materia e, elevandoci sulla stessa, divino a materia (creazione del mondo), divino a umano (creazione dell’uomo), idea a materia (manufatti dell’uomo), idea a idea (teorie, dottrine) e poi di tutto questo l’arte, luogo privilegiato del connettere nella sua molteplicità di saperi, sintesi per antonomasia nel suo più ardito compimento quando discioglie ogni complessità in semplici quanto fecondi paradigmi.
Connessione: sìnchisi moderna, anzi modernissima, ancora più mendace perché può intrappolare, come quando si maschera da internet o da globalizzazione, estranianti nella loro complessità, quando riluttano alla sintesi inclinando verso una sterilità sistemica. Nel primo caso, allora, giungano grate le parole evangeliche di san Luca ( I, 28-29): “Salve, piena di grazia, il signore è con te!” Per tali parole Ella rimase turbata e si domandava che cosa significasse un tale saluto. Ed è così l’Annunciazione. Connessione che turba. Annunciazione prima nella parola (orale, scritta), poi dipinta, in ogni caso per tutti. Connessione quindi tra preposizione (peccato originale) proposizione (annunciazione) posposizione (redenzione) in un superamento degli stessi confini filosofici, della logica in particolare, per accedere al religioso, all’arte, nel nostro caso sacra, se afferisce al trascendente nell’illusione tutta umana di poter mai rappresentare il divino. In ogni dove, in ogni tempo prolificare di testi, verbali e non, attinenti al divino, efficaci più o meno, sempre ubbidienti all’antropomorfismo connesso al bisogno insopprimibile dell’uomo di riportare tutto al sé, da cui nessun editto iconoclasta può distoglierne l’aspirazione. Connessione oggi politropia, in piena affermazione dell’etica della libertà, confacente a ciascuno nella ricerca di un’espressione a lui conveniente, quasi sempre sull’orlo della sìnchisi, confusione in cui stordirsi o peggio perdersi in un percorso di ritorno a se stessi sempre più sconnesso, se si è smarrita la connessione con se stessi. Ma società contraddittoria la nostra se connessione è anche monotropia, quale ambito di omologazione in cui, smarrito il sé, si tenta di riconoscersi nella somiglianza con gli altri e l’orizzonte dell’intellegibile sfuma sempre più e l’uomo occidentale erra così nella solitudine sconfinata della sua vita, moderno labirinto, in cui novella Arianna, l’informatica, predispone il filo di internet con cui realizzare con brama saziata il suo hīc et nunc, ma solo in apparenza con qualche atout. Anzi ci si appiattisce su ciò e l’historia non insegna più, se conta solo il presente che acceca senza più permettere uno sguardo distaccato, che brucia senza più permettere un allontanamento dalle passioni. E qui l’arte contemporanea ne rappresenta spesso questa condizione, e ancella fedifraga, dietro lauti compensi, presta il suo servizio a chi inquina il valore estetico in molti aspetti. Immagine non più dipinta per tutti, da cui l’arte altezzosa invece si allontana e si rifugia in ambiti privati o musei moderni sempre più connettori vanagloriosi della corta memoria del nostro oggi, solo in attesa che, a mano a mano diventa ieri o altro ieri, l’investimento si riveli business. In questo deliquio l’autentico che ha facoltà di rinnovarsi: l’Annuciazione, che Antonello da Messina sposta dal fatto all’apparente soggetto: Maria, l’Annunciata, eternata in tutta la sua concreta umanità, secondando Luca che ne sottolinea quel turbamento, durante quella connessione del divino all’umano e tutto è tradotto con esperta semplicità, quella che compendia una geometricità memore di Piero della Francesca, un colore memore della tradizione veneta, una tecnica memore della lezione fiammingante, un mestiere memore dei maestri catalani e provenzali. Connessioni sospese tra consapevolezza e equilibrio, trasfigurati in quel divino di cui è circonfuso tutto il momento pittoricamente narrato, nonché tutta l’opera, se Antonello magistralmente lo sintetizza in quella mano dal Longhi definita “la più bella mano che io conosca nell’arte”; se Antonello lo sintetizza in quella luce irenica che suggella un patto inviolabile tra l’umano e il divino: l’uno riassunto in una concrezione conica; l’altro smaterializzato in un deficit sublime di immagine: l’angelo è infatti intangibile, ma non per questo messaggero meno credibile del mistero di una connessione, compendio di aneliti umani, in ogni caso palingenetica.