1. LA REALTÀ TRAGICA

Morte o eternità della tragedia?

La tragedia è dunque imitazione di una azione nobile e compiuta, […] di persone che agiscono e non per mezzo di narrazione, la quale per mezzo della pietà e del terrore finisce con l’effettuare la purificazione di cosiffatte passioni.

Aristotele, Poetica

Che io sia attivo, ma sia anche una pianta; che molte cose che non dipendono da me mi rendano oggetto di lode o di biasimo; che io debba costantemente scegliere tra beni tra loro in competizione ed apparentemente incommensurabili, e che le circostanze possano costringermi ad essere falso o fare qualcosa di sbagliato; che un evento, qualcosa che semplicemente «mi capita», possa, senza il mio consenso, alterare la mia vita; che sia ugualmente problematico affidare il nostro bene agli amici, agli amanti, alla patria e provare a vivere bene anche senza di loro – tutti questi sono […] i materiali della tragedia, ma sono anche fatti concreti che la ragion pratica vive tutti i giorni.

M.C. Nussbaum, La fragilità del bene

Molti ritengono che la comprensione della svolta filosofica nel pensiero antico non possa prescindere dalla distinzione tra mythos e logos. Il compito della filosofia ai suoi primordi, in effetti, è stato quello di rimpiazzare i miti e la loro spiegazione della realtà con l’impiego della ragione, dell’osservazione empirica, del metodo (induttivo e deduttivo, sintetico e analitico). Nella sua prima fase, la filosofia si fece carico della missione di demitizzare la comprensione dell’esistenza, ma la sopravvivenza dei miti, seppure a un livello di maggiore consapevolezza, e il continuo ricorso a essi spiegano il motivo per cui non sono mai stati accantonati del tutto e come il trionfo della ragione e della tecnica sia incompleto e mostri ancora delle insufficienze. Non di sola scienza vive l’uomo. Il motivo del nostro attaccamento alla mitologia va ricercato nei limiti costitutivi della riflessione scientifica in merito alle questioni che definiamo «spirituali», ai problemi ultimi che riguardano l’essere umano. Va da sé che oggi il mito dev’essere letto in trasparenza, oltre i suoi contenuti letterali, ma già sin da Platone, lungi dall’essere spazzato via, esso è stato invitato a entrare a far parte delle speculazioni filosofiche, del linguaggio comune e delle spiegazioni scientifiche, e gli è stato assegnato un posto d’onore all’interno della letteratura e dell’arte. Questo significa che la filosofia non può smettere di occuparsi delle manifestazioni artistiche, per via delle conseguenze pratiche che da esse si ricavano. «Se fosse vero che la serietà della vita cade al di fuori del confine dell’arte, allora sarebbe francamente inappropriato volerne fare oggetto di seria considerazione»1 afferma Hegel nelle sue Lezioni di estetica e, poco dopo, aggiunge: «si può credere che scopi veritieri non dovrebbero venire perseguiti attraverso l’illusione e l’apparenza, che l’apparenza non sia il mezzo veritiero per uno scopo veritiero [ma] ogni essenza, ogni verità deve apparire, per non essere una vuota astrazione».2 Il filosofo tedesco eleva l’arte a oggetto d’indagine filosofica e aiuta a introdurre il tema di questo capitolo: l’origine della tragedia e il suo ruolo nel pensiero etico.

L’uomo è un’isola

La nostra esposizione alla fortuna e il nostro senso dei valori, […] ci rendono dipendenti da ciò che sta fuori di noi.

M.C. Nussbaum, La fragilità del bene

Il valore dell’arte, la quale spesso si nutre del mito, trascende le sue scelte formali e materiali che pure rimangono importanti. «L’arte nel suo apparire fa cenno attraverso se stessa a qualcosa di più alto, […] rinvia a qualcosa di più elevato. […] si distingue da altri modi (della verità) non attraverso l’apparenza, ma solo attraverso il modo del suo apparire.»3 Dunque, ribadendo quanto si affermava sopra: «il supremo contenuto dell’arte è: portare a coscienza i supremi interessi dello spirito».4 In questo capitolo s’insisterà sul valore pratico che una forma d’arte in particolare ha rivestito per la filosofia: la tragedia. I suoi personaggi continuano a parlarci e a invitarci a una considerazione più profonda dell’umana esistenza: «sentiamo e vediamo ora solo l’eroe, ferito a morte e tuttavia non ancora morente, col suo grido pieno di disperazione: “Anelare, anelare! Morendo anelare, di non morire di struggimento!”».5 Questo il richiamo di Nietzsche alla tragedia. Chiunque si accosti ai problemi dell’esistenza umana con interesse filosofico non potrà fare a meno di cogliere l’ineluttabile tragicità che la caratterizza. Una siffatta presa di coscienza, tuttavia, non dovrebbe condurre a una cinica rassegnazione, ma semmai stimolare una maggiore sensibilità e ricettività nei confronti delle multiformi manifestazioni della vita, ivi comprese quelle ascrivibili all’esperienza del dolore. Le strade che possono condurre a una simile apertura alla vita sono molteplici, l’arte è una di queste. «Forse l’arte è […] un correlativo e supplemento necessario alla scienza?»6 si chiede e ci chiede Nietzsche. Qui si propende per una risposta affermativa. «Nella misura in cui la ricerca filosofica è una riconquista della libertà, degli spazi di libertà che si sottraggono al dogma, alla logica formale, al mandato delle scienze pure e applicate, nella misura in cui la filosofia è libertà […] il poetico sarà il suo terreno preferito.»7 La poesia è arte e in quanto tale è disinteressata, ma non per questo priva di interesse filosofico. Come scrive Hegel, «la manifestazione dell’arte è sensibile [tuttavia] non è da porre alcun confine tra il pensiero e il sensibile».8 L’attenzione per la poetica (quella greca soprattutto), a cui si fa ripetutamente appello in questo lavoro, non è ascrivibile a un mero interesse di carattere filologico ed erudito, tutt’altro: si tratta di un interesse vivo, legato intimamente alle grandi questioni esistenziali che i Greci per primi hanno tentato di formulare. Abbiamo un debito nei loro confronti, che può essere estinto solo rendendo giustizia alla portata profetica delle loro intuizioni. Il nostro linguaggio è ancora imbevuto di miti. Dopo i Greci non è stato facile inventare nuove metafore, sottolinea Steiner. Ovunque fissiamo lo sguardo, qualunque cosa ascoltiamo, sentiamo l’eco della mitologia greca. Molte espressioni verbali rimandano più o meno implicitamente alle vicende degli eroi tragici.

Le nostre fatiche sono quelle di Eracle. Le nostre ribellioni si rifanno a quella di Prometeo […]. Il Minotauro abita i nostri labirinti, e i nostri voli si schiantano al suolo come quello di Icaro. […] le nostre peregrinazioni e i nostri ritorni sono quelli di Odisseo. Il dolore esasperato delle donne offese continua a parlare per bocca di Medea…9

E che dire del mito di Edipo? Esso ha fornito materiale esplicativo alle teorie psicoanalitiche. Il mito di Eco potrebbe aver anticipato la formulazione del concetto di tautologia. E Antigone è il mito della sorella che lotta per rendere giustizia al fratello morto e condannato dallo Stato; e di quante «Antigoni» è costellata oggi la cronaca nera italiana… Narciso, invece, presta il fianco alle teorie sulla nascita dell’autocoscienza e potrebbe rappresentare, ancora secondo Steiner, il pericolo del solipsismo e dell’incomunicabilità tra gli individui. McLuhan, per esempio, nell’opera tradotta in italiano con il titolo Gli strumenti del comunicare, gli ha dedicato un intero capitolo, intitolato «Narciso come narcosi». Quest’ultimo è un dato significativo sulla rinnovata attualità del mito se si pensa che l’opera in questione tratta dei rapporti tra l’umanità e le tecnologie. Quello dei Greci non è stato un vuoto esercizio di fantasia, ma il tentativo di dare un’espressione concreta a problemi universali che riguardano l’essere umano in quanto tale. Del resto, nonostante le nostre protesi tecnologiche, siamo ancora esseri umani e condividiamo tuttora certe preoccupazioni con chi ci ha preceduto anche di millenni. «La tragedia serve a dare corpo, a conferire una presenza visibile alle eterne considerazioni metafisiche, etiche e psicologiche sulla natura del libero arbitrio, sull’esistenza di altre menti e di altre persone, sulle convenzioni del contratto e della trasgressione tra l’individuo e le sanzioni trascendenti e sociali.»10 Insomma, sembra che, con un po’ di enfasi, si possa concedere a Steiner di dire che «la nostra realtà mima, per così dire, le possibilità canoniche che sono state espresse per la prima volta nell’arte e nella sensibilità classica».11 Martha Nussbaum condivide simili posizioni riguardo alla saggezza che risiede nell’arte classica e osserva: «i poeti tragici nutrivano l’opinione, evidente nelle loro scelte formali, che le emozioni intense, soprattutto la pietà e la paura, fossero fonti di sapere sulla vita umana buona».12 A partire dal recupero della cultura ellenica, ella insiste sull’esigenza di far cadere il nesso causale tra virtù e felicità, saggezza e soddisfazione, alla luce degli esempi contenuti nelle tragedie. Coloro i quali nelle rappresentazioni tragiche soccombono mostrano una certa somiglianza con l’uomo etico di Kierkegaard: affetto da un eccesso di fiducia in sé, da una malattia che potrebbe essere definita emblematicamente «sindrome del timoniere», egli naviga nel mare dell’esistenza certo di poter confidare solo sulle proprie forze. Ciò che sembra sfuggire a una siffatta personalità è che «ad una persona buona può venire a mancare la piena eudaimonia per colpa di eventi che non sono sotto il suo controllo».13 La possibilità di portare in salvo la nave nella tempesta della vita dipende anche dal favore delle onde. Quando Filottete riesce ad abbandonare Lemno, che è stata la sua prigione, dice che la buona riuscita dell’impresa è dipesa da tre fattori: la Moira, gli amici e il daimon. «L’ordine significativo di questi elementi ci suggerisce che il giudizio pratico dei personaggi citati è, come Lemno, un’isola: qualcosa di solido e fermo, ma circondato dalle forze della fortuna e degli eventi naturali, che talvolta sono favorevoli e talvolta contrari.»14 Una simile concezione non deresponsabilizza l’essere umano ma limita la portata della sua libertà. Non vi è alcuna concatenazione tra l’essere buono e accorto e il vivere felice. E del resto è chiaro che il vasto campo delle questioni etiche non può trovare risposte soddisfacenti negli imperativi ipotetici. Il mezzo più idoneo per conseguire la felicità è ancora ignoto e di certo non si tratta di un’abilità strumentale. È per questo che Aristotele, filosofo che Nussbaum preferisce a Platone, accorda maggiore stima ai poeti. «Aristotele nutre una grande considerazione per la tragedia. Sia nella Poetica che nella Politica, quando discute l’educazione dei giovani cittadini, egli le assegna un posto d’onore, attribuendole un valore sia motivazionale sia cognitivo.»15 Il peculiare contrassegno dell’arte tragica è che al valore assoluto attribuito dall’uomo moderno alla scienza preferisce la fallibilità della sapienza, «la quale, senza farsi ingannare dalle seducenti deviazioni delle scienze, si volge con immobile sguardo all’immagine totale del mondo, cercando di cogliere in essa, con simpatetico sentimento d’amore, l’eterna sofferenza come sofferenza propria».16 Se si vuole dare una rappresentazione quanto più completa dell’uomo bisogna ammettere e considerare che, accanto alla capacità di volere e di agire, la caratteristica che più lo connota è la vulnerabilità. Ignorare questo fatto equivale a dare un’immagine ideale dell’essere umano che non corrisponde al vero. Una realtà tutt’altro che scoraggiante secondo le parole di Nussbaum, la quale ci dice che «una parte della particolare bellezza posseduta dall’eccellenza umana consiste proprio nella sua vulnerabilità».17 In tal senso la tragedia mostra un individuo più umano, in qualche modo più «vero» del Socrate morente nell’anti-tragedia platonica. La forza di quest’ultimo sta nella sua convinzione ma è di scarso aiuto per l’uomo comune che non può affatto ignorare l’influsso esterno. Poniamo una situazione ipotetica, quella che poi riguarderà Antigone: come si fa a conservare la tranquillità d’animo nel cammino verso il patibolo, sapendo di lasciare il certo per l’incerto? L’amore per il sapere o l’amore per il fratello non sono immuni «dall’assalto della realtà», per dirla con Nietzsche. Essere un’isola non vuol dire essere staccati dal resto, soli, imperturbabili ma, viceversa, secondo la feconda similitudine di Nussbaum, significa essere circondati dall’influsso di correnti esterne. Dunque morire per un ideale è comprensibile, ma gioire della morte stessa è un compito troppo arduo per l’uomo comune. Antigone anela la morte, ma non lo fa con gioia. La sua è una scelta quasi del tutto obbligata, data dalle circostanze che le rendono preferibile gli inferi al mondo dominato dall’arbitrio umano. Pertanto, fondamentale è il contesto in cui l’eroe agisce, ovvero la situazione. «Se un’opera si limita a esporre determinati caratteri senza mostrarli in azione, manca del valore proprio della tragedia»;18 essa porta l’attenzione dello spettatore più che sull’indole dei personaggi, per così dire, «a riposo», sulla situazione in cui il carattere deve condurre all’azione. «Hexis e praxis, carattere ed attività, sono connessi così strettamente che non è neppure possibile rappresentare le giuste condizioni del carattere se non vengono rappresentate l’azione e la comunicazione – e, perciò, la vulnerabilità.»19 Pertanto, prima Aristotele e poi Nussbaum insistono sul ruolo fondamentale delle emozioni nelle scelte umane. Le molteplici capacità che l’uomo può acquisire nel corso della sua esistenza non debelleranno mai la fragilità che lo caratterizza. A tenere l’uomo con i piedi per terra e a preservarlo dalla hybris è il ricorso alla tragedia greca che da tempi immemori ci racconta la parabola della miseria umana.

Lo spettatore allo specchio: l’uomo nella tragedia

L’opera d’arte non è per sé, ma per noi, e noi dobbiamo sentirci in familiarità con essa. Gli attori non parlano per sé, parlano a noi, e questo accade con tutte le opere d’arte.

G.W.F. Hegel, Estetica

Se volete farvi un’idea, della personalità, della morale e dell’eleganza di un amico, dovete osservarlo mentre affronta circostanze difficili, non nella realtà rosea della vita di tutti i giorni.

N.N. Taleb, Il cigno nero

La tragedia racconta storie di azioni umane. Trama e azione sono i fili di cui è intessuta. Essa «deve mostrare i propri caratteri in azione. […] «include il carattere assieme alla» rappresentazione dell’azione».20 Per comprendere veramente appieno i protagonisti della tragedia dobbiamo coglierli in itinere, dobbiamo vederli scegliere e agire. Entrambi gli elementi, il carattere e le condizioni, sono necessari, cooperano alla buona riuscita di un progetto. Ciò nonostante «avere un buon carattere o essere in una buona condizione non è sufficiente affinché la vita sia completa».21 In un’ipotetica addizione peripeteia e anagnorisis (riconoscimento) saranno gli addendi la cui somma potrebbe rivelarsi l’hamartia: l’errore, che conduce alla sofferenza. «Soffrire per colpa dell’hamartia vuol dire […] commettere durante l’azione una qualche sorta di errore causalmente intellegibile, non semplicemente fortuito, in qualche modo imputabile a se stessi; e tuttavia non si tratta della conseguenza di una disposizione difettosa del carattere.»22 La pietà, che scaturisce dalle vicende tragiche, deriva dal fatto che lo spettatore riconosce nelle peripezie del personaggio qualcosa che può capitare anche a lui. Nel dolore proprio, infatti, scopriamo di essere più umani, nel dolore altrui invece abbiamo svelata la comunanza della nostra natura. Ciò a cui abbiamo assistito da spettatori in terza persona anticipa la possibilità dell’esperienza in prima persona e porta alla «consapevolezza che per noi sono aperte le stesse possibilità di chi soffre».23 Guardando dalla montagna l’uomo che nuota in mare aperto e rischia di annegare, il saggio epicureo, che gioisce del non essere coinvolto, dovrebbe lasciare spazio all’uomo kierkegaardiano che, sospeso con delle cinghie, ne imita i movimenti dalla duna. Essi saranno imperfetti, a lui mancherà l’acqua, non avvertirà l’umido sulla pelle e la sua attività apparirà goffa e ridicola, ma avrà dentro di sé la coscienza che l’onda potrebbe infrangersi sull’altura. Quando questo avverrà, probabilmente non sarà capace di ripetere gli stessi movimenti del naufrago, ma potrà almeno descriverli in virtù della comune natura umana che li rende a lui familiari. Ecco un altro esempio: guardando un acrobata ci stupiamo di ciò che egli riesce a fare col suo corpo poiché non ci reputiamo capaci d’imitarlo e tuttavia sappiamo che per l’essere umano, con il giusto esercizio, quei movimenti sono possibili. E ancora: dietro la maschera, l’attore che si dimena esasperando in forma drammatica i sentimenti umani non potrà fare a meno d’immedesimarsi nel personaggio a cui sta prestando il proprio corpo. La figura dell’attore consente, allora, di spiegare meglio il fenomeno dell’empatia a partire dall’imitazione. Egli è l’essere umano per eccellenza capace di porsi nei panni dell’altro, fondendo la sua stessa persona (l’osservatore) con il personaggio (l’osservato). Ci si può forse rallegrare di non essere veramente sofferenti, ma nel compiere in prima persona i movimenti dell’eroe non si può approdare a un’imperturbabile indifferenza di fronte al patire di quest’ultimo. E lo spettatore, a sua volta, grazie a una siffatta mediazione, potrà partecipare anch’egli della sofferenza dell’eroe. Se, come afferma Aristotele, nell’antica Grecia i poeti hanno una funzione fondamentale nell’educazione dei fanciulli, l’arte drammatica potrebbe rivestire ancora oggi, per noi, un ruolo importante nel campo dell’etica. In che modo? La tragedia mette in luce il ruolo del fato nelle vicende umane: noi riconosciamo quanto siano grandi le sofferenze inflitte ad altri esseri umani simili a noi e, al contempo, che essi non hanno nessuna colpa.

Noi commiseriamo Filottete, abbandonato e dolorante e senza amici su un’isola deserta. Commiseriamo Edipo perché l’azione corretta a cui lo condusse il suo carattere non era il crimine spaventoso che egli commise per ignoranza. Commiseriamo Agamennone perché le circostanze lo costrinsero a uccidere la figlia.24

E mentre compatiamo, in virtù del sentimento di comunanza, temiamo per noi una simile sorte. Il timore è tanto più forte quanto la consapevolezza che qualsiasi prevenzione sia vana. Mettendo in scena drammi di individui particolari con tratti universali, la tragedia favorisce il sentimento simpatetico. Le imperfezioni e la fragilità delle figure tragiche mostrano un’intima parentela pur con individui mai esistiti. La statura eroica dei personaggi tragici non è tale da prendere del tutto le distanze dall’uomo comune. L’eroe non è né assolutamente malvagio, né assolutamente buono, egli è semplicemente debole e fallibile come tutti gli uomini. Dunque pietà e paura sono le emozioni che sorgono nello spettatore della tragedia e nello spettatore-attore della vita.

Nell’universo etico di Aristotele ci sono diverse cose da temere, cose importanti per la stessa eudaimonia. Se, come insiste Aristotele, riconosciamo che i personaggi tragici sono simili a noi nella loro bontà e nelle loro possibilità generali e che la tragedia mostra «le cose che possono succedere» a una persona in generale, con la nostra paura riconosciamo che la loro tragedia è possibile anche per noi. E tale reazione è in sé un insegnamento sulla situazione umana e sui nostri valori.25

La possibilità di scorgere una certa somiglianza tra noi e l’eroe conferisce alla poesia un valore etico superiore a quello della storia. «La storia racconta ciò che effettivamente è avvenuto; la poesia “i fatti che possono accadere”. La storia racconta “il particolare, […]”; la poesia l’“universale: […] a un individuo di tale o tale natura accade di dire o fare cose di tale natura”».26 Pertanto la poesia, e non la storia, è vera magistra vitae. Il fatto che una personalità storica venga ricordata per le sue grandi gesta belliche o diplomatiche, non la fa competere con l’eroe tragico, animato da moventi più universali. Ci è difficile immedesimarci in Napoleone: la maggior parte di noi non è e mai sarà un condottiero, né un sovrano. Antigone, invece, non è ricordata per il suo ruolo di principessa, ma per il suo sacrificio estremo di sorella. Le stesse vicende storiche ci commuovono solo nella loro trasposizione drammatica che, per quanto infedele ai fatti, riesce a muovere le corde della nostra sensibilità. Si pensi, a tal proposito, all’Adelchi di Manzoni. Chi, prima della tragedia manzoniana, si era preoccupato per le sorti di Ermengarda? Ella, ci dicono gli storici, probabilmente non è mai esistita, o questo non era il suo nome, ma quante donne sono state ingiustamente ripudiate da coloro che muovevano i fili del potere? La storia non è in grado, da sola, di farci prendere coscienza dell’errare umano, semplicemente perché non fa appello all’emozione e al sentimento che, invece, hanno una forte valenza cognitiva e motivazionale. Secondo l’interpretazione data da Nussbaum al pensiero aristotelico espresso nella Poetica, sembra che Aristotele si sia sforzato di pensare veramente a fondo la psiche umana. E proprio per questo egli ha sostenuto che la bontà dell’eroe non debba essere assoluta, ma commista a una certa inclinazione lamentosa, che non lo renda ai nostri occhi perfetto tanto da non favorire l’immedesimazione. Per questo Antigone sul finire della tragedia, mentre avanza verso le sue eterne carceri, lamenta la sua condizione di vergine che non conoscerà mai le gioie del matrimonio e della maternità. Scrive, allora, Nussbaum: «la tesi di Aristotele in questo luogo della Poetica è […] la seguente: se la tragedia ci mostra eroi divini, senza i limiti di sopportazione […] che caratterizzano anche i migliori soggetti umani, non si sviluppa il sentimento di somiglianza che è così importante per la reazione tragica».27 Ciò spiegherebbe, senza contraddizione alcuna, perché «l’autocommiserazione di Filottete, l’oblio di sé e l’ambizione di Creonte, l’inflessibile rifiuto dei valori civili di Antigone, la sfrontatezza di Agamennone»28 ci rendono questi eroi ancora più amabili e, in certa misura, ammirabili, nonostante la consapevolezza delle loro imperfezioni. Torna il tema dell’hamartia: tali personaggi non vanno incontro alla rovina a causa della loro malvagità, ma per un errore. Al contrario di quanto potrebbero sostenere gli assertori della dottrina platonica, l’uomo etico kierkegaardiano o il saggio epicureo, «secondo Aristotele la pietà e la paura sono fonti di illuminazione e di chiarimento perché l’agente, reagendo e considerando le proprie reazioni, sviluppa una più ricca comprensione dei valori e delle inclinazioni che stanno alla base delle sue risposte».29 Non è un caso, non manca di mettere in evidenza Nussbaum, che la radice etimologica della parola katharsis, tanto cara ad Aristotele, abbia un profondo legame con il termine «chiarezza». Esso «indica […] la rimozione di un ostacolo […] che rende l’oggetto […] meno chiaro […]. L’uso medico, che significa «purga», è un’applicazione particolare di questo significato […]: la purga libera il corpo dagli impedimenti e dagli ostacoli interni, purificandolo».30 E da qui il prestito e l’estensione alla purificazione spirituale. Il grande pregio della tragedia è, anche secondo Szondi, quello di mostrarci, attraverso il particolare, l’universale. Mediante la mimesi e la categoria del verisimile l’arte tragica edifica un ponte tra l’universalità e la particolarità, attraverso il termine medio della possibilità. L’effetto sullo spettatore entra a far parte della tragedia stessa e le dà completezza e validità. Egli è il destinatario primo e ultimo di ogni rappresentazione, pertanto, nonostante rimanga al di fuori dell’azione, è tutt’altro che marginale. In questo, forse, la tragedia, pur senza perdere lo statuto di arte antica, è il più contemporaneo dei generi artistici. Essa include i suoi fruitori e si mantiene sempre aperta, nonostante il suo finale sia sin dall’inizio a noi noto. Questo la rende immortale e sempre attuale. Bisogna, tuttavia, dare atto a Nietzsche e poi a Szondi di aver compreso che i Greci si ponevano nei confronti del teatro in maniera differente da noi contemporanei: non un semplice svago, ma un’esperienza collettiva con valenze spirituali. Dalla comunanza con il personaggio all’oblio del sé, la tragedia conduce: prima all’immedesimazione e poi, per suo tramite, al superamento dell’interesse privato. La sintonia con l’eroe si mantiene sullo stesso piano della presa di distanza dal sé individuale. Nella compartecipazione al dolore ci si scopre più «filantropi» e, se si è disposti ad accettare di ridimensionare quella componente di egocentrismo che caratterizza la coscienza umana, si può inaugurare un atteggiamento più «umano» all’insegna dell’apertura all’altro. «L’inizio dell’arte coincide con la religione, poiché l’arte è dapprima l’unico modo di portare l’assoluto a coscienza.»31 Hegel ha ben colto il legame tra religioso e arte, tra etico ed estetico. Egli rileva come le opere di Omero fossero per i Greci ciò che per i cristiani è la Bibbia. I primi culti avevano una forma drammatica, artistica e anche per noi moderni, con le dovute cautele, l’arte può ancora rivestire un valore religioso. «Nell’arte noi dobbiamo venire liberati dalla […] soggettività».32 La tesi di Hegel trova conferma nelle parole di Nietzsche:

dell’arte pretendiamo soprattutto e innanzitutto il superamento del soggettivo, la liberazione dall’«io» e l’assenza di ogni volontà e capriccio individuale; anzi senza oggettività, senza pura e disinteressata contemplazione, non potremmo mai credere minimamente a una produzione veramente artistica.33

La consolazione della tragedia

Venne sempre acutamente percepita la particolare bellezza del contingente e del mutabile, venne sempre conservato quell’amore per il rischio e per l’esposizione alla fortuna dell’umanità empirica, che trova la sua ricorrente espressione nelle storie delle divinità innamorate dei mortali.

M.C. Nussbaum, La fragilità del bene

Molte sono le cose mirabili, ma nessuna è più mirabile dell’uomo.

Sofocle, Antigone

La tragedia è, dunque, un’opera religiosa sulla vulnerabilità umana. Essa mette il più fragile degli esseri a contatto con l’universale. Si potrebbe dire, insieme a Nietzsche, che in essa è in gioco il rapporto dell’uomo con la divinità, per il tramite dell’ananke, la necessità. Necessaria e universale è la tragicità nell’esistenza: ogni momento reca in sé la possibilità di un conflitto tra opposti destinati a soccombere. Questa è la tragicità del tragico: la contraddizione, la presenza del negativo. Ma nel tragico l’armonia venuta meno apre lo spazio per un nuovo e più duraturo equilibrio. Se, dal punto di vista degli individui la discrepanza è irreparabile, dal punto di vista dell’universale no. Lo ha spiegato magistralmente Hegel: nella tragedia gli eroi sono vere e proprie personalizzazioni di valori, ognuno si scontra con altri eroi, con valori opposti. Il tragico consiste nel fatto che le due parti hanno una legittimità uguale e contraria. Uguale per intensità, contraria nella direzione. In altre parole, tutti i personaggi avrebbero una giustificazione a sostegno del proprio agire, ma questo stesso agire può realizzarsi solo al prezzo dell’annientamento del suo opposto al quale è stata riconosciuta pari liceità ontologica ed etica. L’uomo è sempre a un passo dalla giustizia ma mai la raggiunge e subisce lo scacco della colpa. Non vi è soluzione se non nell’annichilimento del colpevole, nella morte dell’individuo, necessaria allo ristabilirsi dell’unità inizialmente turbata dal sorgere dell’opposizione. Dopo il sentimento della comunanza, sorge nel pubblico il sentimento della conciliazione. Vi è nel dispiegarsi di questa dialettica qualcosa di consolatorio. Consolazione che, secondo Szondi, manca all’interpretazione del tragico data da Schopenhauer. L’essenza del tragico, come quella della realtà, sarebbe infatti per il filosofo della noluntas l’assurdo. Una forza cieca e folle che si palesa una volta strappato il velo delle apparenze. Allora il tragico si manifesta per ciò che è: non un dolce dolore che conforta, ma parte ineliminabile della vita che necessita solo della rassegnazione. La tragedia, in quanto forma d’arte, rappresenta la volontà unica che si esteriorizza nelle sue diverse manifestazioni, le quali giungono a confliggere e a eliminarsi l’un l’altra. L’unico esito possibile è, dunque, l’annientamento che si realizza nel tutto per mezzo delle sue parti. La tragedia mostra, alla fine, proprio l’inevitabile autodistruzione della volontà nella lotta autolesionista, ma inevitabile, contro se stessa. Qualsiasi volere è destinato al fallimento. Gli eroi tragici dopo terribili patimenti non guadagnano una ricompensa, ma rinunciano ai nobili fini che perseguivano al principio della vicenda che li vede protagonisti. Quasi sempre essi muoiono e la loro morte è la manifestazione sensibile dello spegnersi della fiamma della loro volontà, la volontà di vivere. Non c’è tensione escatologica nel pensiero dei Greci, tutto rimane sul piano del finito e privo di ricompensa terrena, così come celeste. Forte si fa, a questo punto, la tentazione di ricavare dalla tragedia un suggerimento riguardo alla nullità del significato ultimo dell’esistenza. Eppure, non manca in essa, così come pure nell’esistenza, la possibilità della gratificazione. «Quel popolo […] che aveva un talento così unico per il soffrire, come avrebbe potuto sopportare l’esistenza, se questa non gli fosse stata mostrata nei suoi dèi circonfusa da una gloria superiore?».34 L’Olimpo non è altro che una mimesi trasfigurata della realtà, «giacché solo come fenomeni estetici l’esistenza e il mondo sono eternamente giustificati».35 Come uno specchio al di là del quale esiste una dimensione parallela, esso restituisce un’immagine ideale della realtà. «Con questo rispecchiamento di bellezza la volontà ellenica lottò contro il talento, correlativo a quello artistico, del dolore e della saggezza del dolore.»36 Il pathei mathos di Eschilo torna implicitamente in Sofocle.

La figura più dolorosa della scena greca, lo sventurato Edipo, è stata concepita da Sofocle come l’uomo nobile che è destinato all’errore e alla miseria nonostante la sua saggezza, ma che alla fine, in virtù del suo immenso soffrire, esercita intorno a sé un’azione magica e benefica, che è ancora efficace dopo la sua dipartita.37

Significativo è qui il capovolgimento operato da Nietzsche nel considerare quella che generalmente viene vista come la «maledizione di Edipo» in aura magica e benefica che si diffonde a macchia d’olio. Anticipatore, dunque, Nietzsche rispetto a Nussbaum, nell’assegnare un valore positivo proprio al negativo che si manifesta nella tragedia. All’insegna del paradosso, nella vicenda di Edipo si mostra uno stretto rapporto tra la saggezza e l’incesto: «Edipo, l’assassino di suo padre, il marito di sua madre, Edipo, che ha sciolto l’enigma della Sfinge! Che cosa ci dice la misteriosa triade di questi atti fatali? C’è un’antichissima credenza popolare, persiana in particolare, per cui un mago sapiente può nascere solo da un incesto».38 Colui che mostra di conoscere i segreti della natura e scioglie l’enigma della Sfinge è, in realtà, colui che è destinato all’inconsapevole violazione della stessa. Il sapere che ha condotto Edipo a Tebe lo abbandona proprio quando ne diviene re. La sua stessa ascesa al trono è frutto della sua ignoranza. Il doppio legame mostruoso che accomuna gli eredi di Edipo (Antigone fra tutti) fa di essi eroi capaci di grandi imprese e scelte. Sia la saggezza prometeica che l’incesto sono delitti verso gli dèi. «A causa del suo titanico amore per gli uomini Prometeo dovette essere lacerato dagli avvoltoi; per la sua eccessiva saggezza, che sciolse l’enigma della Sfinge, Edipo dovette precipitare in un travolgente vortice di atrocità.»39 Ma sembra che Nietzsche voglia dire che ne sia valsa la pena, che il gioco vale la candela: le cose migliori che l’uomo conquista sono frutto di un crimine che porta con sé delle conseguenze. Edipo è adamitico nel suo andare sventuratamente incontro al sapere: «la conoscenza del bene e del male fa infelici Adamo ed Eva. E come Adamo è cacciato dal paradiso, così anche Edipo viene scacciato».40 La conquista del sapere è tutt’altro che accesso alla felicità socratica, essa è infelicità. Eva ha mangiato il frutto perché non ha accettato la beata condizione dell’ignoranza e ha pagato il prezzo della conoscenza con la finitezza. Questo potrebbe già essere un dato della profonda ricchezza che si cela nella debolezza umana. Si è sostenuto sin dall’inizio che la lirica, la tragedia, in una parola la poetica, possa rappresentare una via valida per l’accesso a una maggiore e più profonda comprensione dell’esistenza; per questa ragione La nascita della tragedia è l’opera che più tiene fede a questa convinzione. Ancora una volta, con Nietzsche, al banco d’accusa Socrate e Platone e la supremazia da loro accordata al raziocinio che pure contagia un tragediografo come Euripide. Solo la tragedia attica per Nietzsche è capace di mettere insieme i due spiriti della grecità: apollineo e dionisiaco, l’arte plastica e la musica, frutto di pulsioni diverse e in contrasto, che come la corda e il legno curvo dell’arco creano un perfetto equilibrio eracliteo. Essa è stata e sempre sarà «meta comune dei due istinti, il cui misterioso connubio si è glorificato, dopo una lunga lotta precedente, in una tale creatura – che è insieme Antigone e Cassandra».41 Apollineo e dionisiaco si scontrano nella tragedia, ma anche nel singolo e nella comunità. Da qui la descrizione della cultura come prodotto del continuo riequilibrarsi di queste due forze. Le stesse fasi dell’arte greca possono essere interpretate sulla base del prevalere dell’una o dell’altra. Per esempio l’arte dorica è vista da Nietzsche come resistenza dell’apollineo agli assalti del dionisiaco. «Lo sviluppo dell’arte è legato alla duplicità dell’apollineo e del dionisiaco, similmente a come la generazione dipende dalla dualità dei sessi, attraverso una continua lotta e una riconciliazione che interviene solo periodicamente.»42 In una tragedia come Antigone, per esempio, nella polarità tra il personaggio maschile, Creonte, e il personaggio femminile, Antigone, si coglie bene questo dissidio tra l’apollineo ordinatore e il dionisiaco portatore di caos e scompiglio, dove il dionisiaco, alla fine, si rivela il fondamento su cui poggia l’apollineo. Dal costante contrasto tra le due forze si origina l’arte perfetta che Nietzsche individua nella tragedia attica. È forse per questo, dunque, che l’Antigone di Sofocle è stata definita da Hegel la sublime tra le tragedie. Essa è, in un certo senso, una tragedia entro la tragedia per via degli elementi che ancora prima dell’azione oppongono i suoi personaggi. L’intento che anima l’opera di Nietzsche permea, in qualche modo, queste pagine: un rinnovamento all’insegna del recupero della sensibilità antica, un nuovo modo di guardare alla tragicità dell’esistenza sulla scorta della saggezza greca. I Greci possono insegnarci a sopportare i dolori dell’esistenza: la loro superiorità sta nella consapevolezza della caducità della vita, manifestata attraverso l’esasperazione dell’esperienza della sofferenza, elevata ad arte. La musica costituisce l’elemento dionisiaco, la scultura invece l’apollineo. La tragedia è figlia tanto dell’epopea, la quale ha più elementi apollinei, quanto della musica, che è il campo in cui si manifesta il dionisiaco. La tragedia affianca all’epica la musicalità del coro. Dunque la tragedia greca va recepita come coro dionisiaco su cui si stagliano le figure apollinee, come immagini che si staccano dal comune fondo fluido della musicalità. Se la tragedia a un certo punto è morta è accaduto con Euripide, scrive Nietzsche, il quale ha subìto il fascino della ragione socratica trasformando il mito in narrazione realistica e razionale, celebrando le nozze tra virtù e felicità. Inaugurando, cioè, il pensiero secondo cui al virtuoso non può capitare alcuna sventura definitiva. Euripide ha così tolto alla tragedia proprio la tensione tragica, aprendo le porte alla divinità ordinatrice che tutto risolve, il deus ex machina. Nietzsche fa appello a una ripresa del tragico, venuto meno nella concezione razionale dell’universo. Un invito, il suo, ad andare al di là della cultura teoretica, titanica nel suo sforzo di spiegare e controllare tutto. Nietzsche descrive il rapporto tra apollineo e dionisiaco anche nei termini del sogno e dell’ebbrezza. Un simile accorato appello all’abbandono della lucidità e della veglia può trasformarsi in un utile esercizio per mitigare le pretese razionalistiche. La tragedia può diventare la nostra «bevanda narcotica», capace di destare impulsi sopiti dall’eccesso di razionalità. Luce e tenebre caratterizzano rispettivamente Apollo, il chiarificatore, e Dioniso, l’oscuro, il misterioso. Questi elementi ritornano, ancora una volta, nella tragedia esemplare di Sofocle, nella polarità tra mondo dei vivi e mondo dei morti. Antigone è chiaramente dionisiaca nella dimenticanza di se stessa, nel suo sacrificio, nel suo sprofondare negli abissi dell’oscurità e lo è ancora di più in quanto elemento disturbante nell’ordine della polis. Ella sente chiaramente il richiamo del sileno: «stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggioso non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è morire presto».43 Eppure c’è al principio qualcosa di apollineo in lei poiché, scrive Nietzsche, «Apollo mi sta innanzi come il genio trasfiguratore del principium individuationis, […] per contro al mistico grido di giubilo di Dioniso la catena dell’individuazione viene spezzata e si apre la via verso le Madri dell’essere, verso l’esistenza intima delle cose»;44 non è forse Antigone una figura in cui si manifesta in maniera inequivocabile la presenza di entrambi gli elementi? Ella si erge a individuo nel suo rifiuto dell’obbedienza alle leggi della polis, per poi andare fieramente incontro alla morte che distrugge e riassorbe l’esistenza del singolo. Dopo il trionfo della morte, la consolazione risiede in ciò che lo spettatore ha ricavato dalla vicenda tragica. Con Nietzsche, alla presa di coscienza dell’ineliminabilità del negativo fa seguito una risposta affermativa alla vita pur nella sua tragicità, per via di ciò che l’eroe, l’essere umano «eroico», lascia e imprime nel fluire della vita stessa. Attraverso l’imprescindibilità dell’elemento dionisiaco diventiamo consapevoli dell’unità e dell’essenza della vita al di là del perire dell’individuo.

La funzione etica dell’antropomorfismo greco

La sfera della poesia non si trova al di fuori del mondo, come una fantastica impossibilità di un cervello poetico: essa vuol essere l’esatto contrario, la non truccata espressione della verità.

F. Nietzsche, La nascita della tragedia

Dimmi, perché quand’era qui la cagna cantatrice d’enigmi, alcuno scampo non trovasti ai Tebani? E sí, l’enigma non era tal che lo sciogliesse il primo giunto! Occorreva l’arte del profeta! Ma tu non dagli uccelli e non dai Numi trar sapesti presagio. Invece io giunsi, io, che nulla sapevo, Edipo; e muta la resi…

Sofocle, Edipo re

In qualche modo, questo capitolo ha una valenza introduttiva e vuole essere una sorta di apologia dell’arte tragica e del suo peculiarissimo ruolo di mezzo di acquisizione di una maggiore consapevolezza individuale e collettiva. Parafrasando Hegel, l’arte è il luogo eletto in cui lo spirito trova le sue manifestazioni più alte. In essa un popolo dà massima espressione ai propri valori, alla propria cultura, alla propria civiltà come segno della propria consapevolezza. L’arte, quella tragica in particolare, getta un ponte tra la natura e la cultura, attribuendo senso alle connessioni meccaniche tra fenomeni. Il fenomeno della morte è il fenomeno per eccellenza a cui la tragedia cerca di dare un significato che trascenda la vacuità dell’evento in sé dal punto di vista della natura. L’arte tragica rapina la natura della sua indifferenza e ce la riconsegna carica di significato. Antigone strappa via alla natura brandelli di terra per ricoprire il fratello morto e alla terra lo restituisce con un gesto carico di significato. Le opere d’arte sono come misteri, simboli che nascondono significati altri rispetto all’immediatezza percettiva. La morte non è più semplice annullamento che lascia solo silenzio dietro di sé. La forma artistica è una vera e propria maschera che copre di autentico significato spirituale ciò che appartiene alle natura. La polvere ricopre il corpo di Polinice vestendo il «nudo» cadavere di amore fraterno. Il sodalizio di Antigone con la terra è evidente sin dalle prime battute della tragedia di Sofocle. La terra che lei ha smosso, sollevato, all’inizio, come acqua che disseta, alla fine, la sovrasterà, la ricoprirà, l’accoglierà entro le sue profondità oscure. «La vera e propria sofferenza dionisiaca, è come una trasformazione in aria, acqua, terra e fuoco, e […] quindi dobbiamo considerare lo stato di individuazione come la fonte e la causa prima di ogni sofferenza.»45 Antigone alla fine si fa terra, l’individuo viene riassorbito dal tutto. Un destino simile a quello dei Titani spetta dunque all’eroina tebana: come gli dèi antichi furono scacciati ed esiliati nelle viscere della terra o costretti a rifugiarsi negli oscuri confini del mondo baciato dai raggi del sole, così ella sarà privata della luce e accolta tra le tenebre. Dopo la svolta della ragione rappresentata da Edipo, si assiste con Antigone a un ritorno al caos. Nella mitologia greca i Titani rappresentano la cattiva infinità, la forza che non sa darsi equilibrio e disciplina. Dal punto di vista artistico essi trovavano un correlato nelle grandi opere architettoniche come i templi, nei quali si eleggeva a simbolo lo sconfinato, il monumentale. Il passaggio all’arte classica si celebra, dunque, con Edipo: colui che si rivela capace di risolvere l’enigma della Sfinge. Il mostro tiene in scacco l’uomo con il suo insolubile indovinello, Edipo trova la risposta nell’uomo stesso e lo distrugge. La risposta è il simbolo che rimanda alle parole dell’oracolo delfico: «conosci te stesso». Edipo compie il movimento della coscienza verso se stessa e approda all’autocoscienza. C’è nella sua risposta la coincidenza del risolutore con la soluzione. Egli stesso, in quanto essere umano, è la chiave per dissolvere il rompicapo. Già nella Sfinge, mezza animale e mezza uomo, distesa, immobile, vi era un potenziale slancio verso l’autocoscienza, ma solo con Edipo, l’uomo tout court, si scioglie l’arcano mediante il pensiero. Ecco compiuto il passo decisivo per una sorta di teandria che si manifesta nell’antropomorfizzazione degli dèi. Fatto, quest’ultimo, che Hegel non legge come un limite, ma, al contrario, come un punto di forza della cultura greca. Il passaggio dall’arte simbolica all’arte classica si realizza, per Hegel, con l’elezione della figura umana a simbolo. Poiché l’essere umano è rappresentante dello Spirito, la personificazione è la via maestra per l’accesso allo spirituale. Per questo Hegel scrive: «il rimprovero rivolto all’antropomorfismo della religione greca è perciò infondato e le va invece rimproverato di non essere sufficientemente antropomorfica».46 Il merito dei Greci è, infatti, quello di aver sempre trovato i migliori modi per dire ciò che è difficile dire, le migliori allegorie per rappresentare ciò che altrimenti resta inafferrabile. La storia di Edipo, si è visto, può essere un’allegoria della celebre iscrizione greca che invita alla presa di coscienza di sé. Pertanto si coglie in Hegel una prospettiva diametralmente opposta a quella nietzschiana, la quale respinge la dottrina socratica. La figura di Antigone si è già fatta largo in queste pagine e così ci ha introdotto Sofocle. I suoi eroi sono i più adatti a celebrare il passaggio dalla statuaria come forma artistica eletta, al teatro. I suoi personaggi si prestano a un confronto con le sculture dell’epoca classica. La scultura, dice Hegel, è quella forma artistica che esprime un pathos particolare mediante una figura intera, nella quale un carattere deve apparire come prevalente. Gli eroi sofoclei sono come statue parlanti dotate di movimento, che agiscono e argomentano le loro azioni. Per Hegel, è innegabile il contributo fornito da Omero alla statuaria. C’è, dunque, un rapporto fraterno e quasi simbiotico tra statuaria e tragedia, «la pienezza della scultura a tutto tondo è l’equivalente in pietra dell’integrità dell’eroe nella tragedia, e viceversa le parole che l’eroe pronuncia sulla scena sono dure e squadrate come il marmo di una statua».47 Entrambi i generi artistici attingono il proprio materiale narrativo e plastico dai poemi omerici, nei quali «l’eroe ha un carattere monolitico, una volontà unica, infrangibile, sempre costante», così come «la statuaria greca di età classica scolpisce gli individui a tutto tondo, in modo che possa risaltare da ogni lato la completezza della figura».48 Ciò però non deve condurre a negare una certa varietà e ricchezza dell’antropologia greca: «l’essere umano è totalità soggettiva, a un uomo appartengono tutti gli dei; egli racchiude nel proprio petto tutte le potenze, che nella cerchia degli dei sono proiettate l’una fuori dall’altra, è la ricchezza dell’intero Olimpo».49 Le metafore, le allegorie, le personificazioni che la cultura greca ci ha consegnato hanno spesso per referente l’interiorità umana: le Eumenidi danno forma al senso di colpa e a un primo abbozzo di coscienza morale. Tutte le tragedie, infatti, se lette attentamente ci narrano la storia della coscienza umana nel suo duplice significato di Bewutssein e Gewissen, Conscience e Consciousness. Ha, allora, ragione Nietzsche quando afferma: «i Greci sono, […], gli eterni fanciulli, e anche nell’arte tragica sono soltanto i fanciulli che non sanno quale sublime giocattolo sia nato fra le loro mani».50 Nella figura degli dèi si compie il gioco dialettico tra esterno e interno. «Infatti gli dèi, per quanto da un lato siano esterni, dall’altro si trovano anche nell’animo.»51 L’interesse antropologico, altrimenti, verrebbe meno. «Quando Achille vuole sguainare la spada contro Agamennone, Minerva lo trattiene. […] questo processo è contemporaneamente qualcosa di interiore, un troncarsi dell’ira in se stessa, un trattenersi dell’animo.»52 Qualcosa di simile Hegel lo nota anche nella tragedia moderna, riportando l’esempio di Amleto e di Macbeth. Lo spettro del padre, nel primo, e le streghe, nel secondo, sono la voce dell’interiorità. In Amleto il fantasma rappresenta la risoluzione e il coraggio che nel principe danese non trovano alcuna possibilità di sbocco per via del suo carattere debole e melanconico. Al di là di qualsiasi differenziazione tra epica, tragedia antica e tragedia moderna, una cosa sembra certa: i poeti e i tragediografi hanno, di volta in volta, esercitato il ruolo di mediatori tra l’intellegibile e il sensibile, tra lo spirituale e il materiale. Da qui le implicazioni etiche che scaturiscono da alcune scelte estetiche. Nella cultura greca che gli dèi siano costruiti a immagine e somiglianza dell’uomo non è del tutto vero, essi costituiscono «l’autentica interiorità» dell’uomo, eppure rimangono esterni, separati, altrove, collocati sul monte Olimpo. Essi sono ambivalenti: sono sia interni che esterni. La loro esteriorità è funzionale a una migliore comprensione dell’interiorità umana, eppure il loro essere non si esaurisce in essa. Gli dèi rappresentano anche e soprattutto ciò che si sottrae al controllo umano. Il poeta ha il merito di raccordare questi due ambiti del reale: l’interno e l’esterno, il soggettivo e l’oggettivo, la volontà e la fortuna o il fato. «Il poeta […], per un verso, individualizza […] l’ideale, ma al tempo stesso, mostra questo esteriore come un che d’immanente, di spirituale, che appartiene al carattere dell’uomo.»53 Ciò sarebbe, ancora, una rappresentazione del complesso e precario equilibrio tra volontà, necessità e casualità che caratterizza ogni umano vivere. «Dunque, per un verso è profondamente sbagliato, commentando un poeta, dare una spiegazione prosaica degli dèi, dicendo che si tratta di qualcosa di puramente interiore; ma dall’altra parte ciò è anche giusto.»54 Lungi dall’essere segnata solo ed esclusivamente dal principio dell’irriducibilità diadica, la cultura greca ci stupisce per la sua complessità, la commistione e l’accordo che realizza tra le coppie di opposti.

La statua incontra la musica, l’atleta il poeta

Si è cercato di spiegare come la ricchezza emotiva dei personaggi tragici sia spesso parzialmente mutilata dalla loro indole statuaria. I personaggi sono, infatti, per certi versi, come simulacri o bassorilievi che mostrano solo una faccia, che possono manifestare una e una sola azione, uno e un solo sentimento alla volta. Ciò fa del personaggio una semplificazione. Ma bisogna andare oltre e non soffermarsi a questa parvenza. Lo stesso Hegel ci invita a osservare più da vicino e con maggiore accuratezza i personaggi sofoclei e la loro multilateralità. Basti pensare al comportamento di Antigone verso i suoi cari: Ismene, Polinice, Eteocle, tre fratelli ai quali spetta un trattamento differente. Possiamo scorgere nella chiusura e completezza dell’opera d’arte scultorea un’altrettanta apertura e ricchezza: «l’immagine plastica nella sua tranquillità lascia scorgere la libertà di una figura, la possibilità di entrare nei rapporti più diversi; noi scorgiamo la quieta profondità, che abbraccia in sé la possibilità di tutte le potenze».55 La scultura, in effetti, è chiusa, finita, delimitata nella sua estensione, ma ha la terza dimensione nella profondità. Nella tragedia sofoclea gli individui mostrano un’impermeabilità marmorea, una chiusura all’altro, pena la frantumazione del proprio sé. Ma si tratta di una falsa coscienza: «l’individuo ha in se stesso il suo altro, e nel ferire quest’ultimo ferisce se stesso».56 Ecco perché gli individui si annichiliscono a vicenda e così facendo, in qualche modo, si annientano in maniera riflessiva. Essi dovrebbero accettare di aprirsi a ciò a cui si oppongono, ma la pietra non si lascia attraversare da un’altra pietra senza sgretolarsi. Così sono i personaggi sofoclei. Nella statua vi è «una staticità che non è ancora azione, una sostanza che non si è ancora convertita in soggetto vero e proprio».57 Un blocco di pietra, per quanto smussato nei suoi angoli più acuti, che aspetta di ricevere la propria anima. Anima, che si potrebbe nietzschianamente far coincidere con la musica. Il sonoro ha una sua sostanza, tuttavia la sua materialità è, in qualche modo, astratta. Nella musica la materia invisibile trascende se stessa. La musica è intimamente legata al tempo, piuttosto che allo spazio: «il suono, in quanto è, non è; il suo compimento fisico, non appena è, sparisce»;58 è esattamente come il tempo in Agostino: la sua presenza non si lascia catturare, non lo si può afferrare eppure la sua esistenza è innegabile e fondamentale e si coglie nell’interiorità. La funzione della musica nella scena tragica è tutt’altro che secondaria, essa «anima» la scena dall’interno, dà un’anima alle figure della tragedia. Quale migliore mezzo espressivo per l’eroe tragico il cui destino è il medesimo del suono? Il compimento della sua azione equivale alla sua dissoluzione. La musica è la componente emotiva della tragedia. Il verbo stesso sentire esprime tanto la sensazione uditiva quanto l’emozione. L’orecchio costituisce la principale porta di accesso al cuore, il tramite fisico prediletto dal sentimento. L’importanza fisica del suono nella tragedia viene accresciuta dalla parola. Dal suono inarticolato si passa, con la lirica, a quello articolato: il discorso. Dalla fonetica alla semantica. Alla base delle arti, secondo Hegel, sta dunque la differenza tra i sensi. Essi vengono suddivisi in sensi pratici come l’olfatto, il tatto e il gusto; e sensi teoretici, come la vista (i Greci stessi, lo si coglie soprattutto con Edipo, assegnano alla vista un ruolo predominante) e, appunto, l’udito. Questi ultimi, presi insieme, stanno a fondamento della fruibilità dell’opera teatrale. Riprendendo Hegel e volendo essere più precisi, sarebbe forse il caso di dare a quelli che il filosofo tedesco definisce sensi teoretici anche l’appellativo di «sensi etici». L’eroe infatti vede e sente, si lascia guardare e ascoltare, e tramite azioni e parole si mostra in tutta la sua sfortunata e imperfetta nobiltà d’animo. In un rapporto dialettico la sintesi tra arti figurative e arti musicali è costituita dalla poesia. La completezza della tragedia deriva dalla sua parentela con il frutto di questa felice unione. «Nell’arte della parola al suono si unisce la determinatezza della figura propria delle arti figurative».59 Per dirla con Nietzsche, al caos e all’indeterminatezza del dionisiaco si affianca la quiete e l’austerità misurata dell’apollineo.

Il dramma della musica […] è quello di non possedere un autentico contenuto: perciò la passione violenta che in origine si esprime nella musica più grezza e più rozza, vale a dire il grido animale, dev’essere modulata dal canto affinché avvenga il passaggio progressivo alla parola che agisce come ancora rispetto alla mostruosità che può emergere dal puro risuonare musicale.60

Nei versi sofoclei che narrano della disperazione di Antigone una volta scoperto il corpo di Polinice privato nuovamente di sepoltura, il suo lamento viene paragonato alle urla di un uccello che trova il proprio nido vuoto. Il paragone dell’eroina tebana con l’animale mostra il legame tra la figura di Antigone e l’irrazionale. La persistenza del dionisiaco, la sua rivolta entro lo spazio in cui la parola ha trionfato sui suoni striduli e inarticolati emessi dalle baccanti. Nell’arte tragica, l’«opera d’arte vivente» che è l’atleta, il quale si muove silenziosamente, s’incontra con il poeta che gli dà voce. Pindaro, il poeta lirico greco che ha celebrato numerosi vincitori, non a caso è la figura chiave a partire dalla quale si snodano le prime considerazioni di Nussbaum sui meriti umani. «Pindaro dedica tutta la sua carriera poetica a scrivere odi liriche per esaltare l’eccellenza umana.»61 Affinché questo possa accadere bisogna convenire che le buone qualità e i buoni risultati raggiunti da un essere umano dipendono dalla sua responsabilità. E tuttavia la saggezza porta Pindaro a dichiarare che «l’eccellenza della persona buona […] è come una giovane pianta: qualcosa che cresce nel mondo, sottile, fragile, costantemente bisognoso di alimento dall’esterno».62 Si è accennato con l’atleta all’agonismo greco: un fondo agonale permane nella cultura greca fino ad investire la stessa tragedia, nella quale si fa evidente attraverso l’inconciliabilità tra le due impermeabili potenze etiche. Nella tragedia non esiste una netta divisione tra bene e male: «a produrre la collisione non è una volontà malvagia, non è la mera disgrazia, ma la giustificazione etica che si trova da entrambi i lati».63 La pari dignità di cui godono le due potenze etiche le rende inadatte alla possibilità del trionfo.

La prima potenza è il lato della luce, il dio dell’oracolo, il quale – scaturito secondo il suo momento naturale dal sole che tutto illumina – tutto sa e tutto rivela: Febo, e Zeus che ne è il padre. Ma i comandi di questo dio vaticinante e le sue rivelazione relative a ciò che è sono peraltro ingannevoli. Infatti, nel suo concetto, questo sapere è immediatamente il non-sapere, perché la coscienza, nell’agire, è in se stessa questa antitesi. Proprio colui che era stato capace di risolvere l’enigma della Sfinge, come pure colui che s’era attenuto alla fedeltà filiale, vengono dunque mandati in rovina da quanto il dio loro rivela.64

Nella vicenda di Antigone, così come anche in quella di Oreste,

i due lati della coscienza, che nella realtà effettiva non hanno ciascuno una propria individualità separata, ottengono entrambi la loro figura particolare nella rappresentazione; l’una individualità riceve la figura del dio che rivela; l’altra, quella delle Erinni che si mantiene nascosta.65

Le due opposte istanze etiche costringono l’eroe a una scelta tra un aut-aut irriducibile in cui «tutto ciò che esiste è giusto e ingiusto, e in entrambi i casi ugualmente giustificato».66 In questo si mostra la miseria umana, l’ineluttabile destino degli esseri finiti. «Il dissidio tragico, la scissione tra potenze etiche opposte accade sotto lo sguardo del coro […] che accoglie l’eroe come un tempo l’architettura accoglieva la statua del dio.»67 Nel passaggio dall’epica alla tragedia il poeta si è fatto da parte lasciando lo spazio necessario all’eroe per farsi carne per mezzo dell’attore, il quale parla, non narra, e così facendo dà voce alla volontà di agire dell’eroe stesso. Ma egli non è da solo sulla scena. Come un’ombra lo segue il coro. Elemento tutt’altro che accessorio, per Nietzsche esso precede addirittura la tragedia così come la conosciamo. La tragedia si sarebbe sviluppata a partire dal coro. Come le maschere apollinee celano dietro di sé il ribollire del magma originario dionisiaco, così la musica ha preceduto la parola. Il coro sarebbe allora il generale da cui procede il singolo, l’humus dal quale sono sbocciati gli eroi. Il coro, l’indifferenziato, precede l’individuo il quale prende congedo dal generale e si macchia della colpa dell’individuazione. «Nel tragico […] l’individualità viene distrutta dall’unilateralità del suo scopo. L’individualità perisce col suo scopo. L’eterna giustizia si esercita sull’individuo e sullo scopo.»68 La tragedia classica, infatti, «inizia da una situazione: alcuni individui sono coinvolti nell’offesa recata a una condizione, e debbono perciò darsi in essa uno scopo. Quel che è giustificato è l’eticità in genere, ma le potenze etiche sono diverse».69 Tale diversità è mantenuta insieme, sopita nella situazione che precede lo snodarsi della vicenda e il casus belli che porta le potenze a dichiararsi guerra l’un l’altra. In tale panorama «il coro rappresenta la condizione quieta, che vive in un’eticità non turbata, teme la scissione delle potenze etiche e rimane per sé neutrale».70 Il coro canta, l’individuo parla. Dalla fluidità musicale si modellano come creta le sue parole. Il canto mostra una ricchezza che manca alla «chiarezza della parola»: «il cantante […] parla più che non canti, accentuando in questo mezzo canto l’espressione patetica della parola».71 Il suono inarticolato dei versi bestiali ha un’incisività per cui nessuna parola potrebbe sostituire con uguale efficacia le urla disperate di Antigone di fronte al cadavere del fratello. La misura e la bellezza di Apollo poggiano sulla sofferenza dionisiaca. L’armonia scaturisce dal caos, la bellezza dall’orrore dello smisurato superamento dell’individuo nella morte. Pathei mathos, il monito eschileo risuona ancora. Ecco allora che si coglie la bellezza nella misera morte della vergine Antigone, che non ha conosciuto il mondo se non nelle sue più tristi manifestazioni. Eccola, finalmente apparire la soddisfazione, «la consolazione metafisica, lasciata alla fine in noi da ogni vera tragedia […] per cui in fondo alle cose la vita è, […] indistruttibilmente potente e gioiosa».72 Solo l’arte, per Nietzsche, ha l’enorme potere di tramutare l’orrore in bellezza. «Il coro è un muro vivo contro l’assalto della realtà.»73 La tragedia è la più «vitale» delle rappresentazioni e chiarificazioni del senso dell’esistenza.

Il dispiegamento dialettico della tragedia

Nel Saggio sul tragico di Peter Szondi (più volte citato) l’autore richiama Benjamin, il quale ha rilevato la centralità del tema del sacrificio nella tragedia attica. Esso ha una valenza ambigua: è espiazione, ma è anche e soprattutto testimonianza di una ribellione. Lungi dal voler essere una preghiera per la remissione dei peccati è l’evento più eclatante con il quale l’eroe spodesta gli dèi. L’eroe spesso si sacrifica per la propria comunità; si pensi a Ifigenia quando accetta il destino di vittima sacrificale per il bene del suo popolo. Se, dunque, la parola è fondamentale nel dispiegarsi della tragedia, alla fine ciò che veramente trionfa è il silenzio. La parola, infatti, rimane insufficiente e nasce già vecchia rispetto a ciò che intende dire; rispetto all’azione. L’eroe in effetti agisce più di quanto non rifletta e parli. Nel presentare la differenza tra poesia epica, lirica e drammatica, nelle sue lezioni, Hegel sostiene che nella prima venga narrato un accadere oggettivo, nella seconda, al contrario, trova piena espressione la soggettività del poeta e nella terza la sintesi, la «presentazione dell’in-e-per-sé essente, come esso è saputo in sé dal soggetto che ne fa un accadere oggettivo».74 L’azione del soggetto non fa che congiungere le circostanze esterne oggettive e il sentire interiore soggettivo. Questi tre momenti trovano dei rappresentanti rispettivamente nel rapsodo, nel cantore e nell’attore, che è, appunto, la prima persona narrante sé. «Omero non compare come soggetto nella sua poesia, e poiché egli presenta solo l’oggettività della Cosa, si è affermato che la sua poesia appartenga a molti poeti»75 e, si potrebbe aggiungere: la sua poesia appartiene a tutti, all’essere umano in quanto tale. Essa è dotata di una certa universalità che trascende il tempo e lo spazio. Nell’epica domina il fato, il destino, mentre nella tragedia e nel dramma una certa forma di volere, pertanto «nel dramma la commozione non può scaturire dalle circostanze, ma dalla decisione»76 che fa grande l’eroe. Se, inoltre, l’epopea tratta della guerra tra i popoli, la tragedia prende in esame la guerra tra individui, mentre il dramma introietta il conflitto a un livello ancora più profondo: è la guerra interiore entro un solo individuo. Il conflitto può scaturire dall’esterno così come pure dalla famiglia «e questa è una situazione molto antica, che comincia già con Caino e prosegue con la guerra tebana».77 La guerra tra tebani e argivi è lo sfondo generale su cui si stagliano le figure di Eteocle e Polinice e si innesta il loro conflitto. «La condizione epica – la guerra di Tebe e Argo – deve essere il terreno presupposto.»78 La lotta tra le due potenze etiche che trovano manifestazione nello Stato e nella Famiglia è la condizione che si incarna nelle figure di Creonte e Antigone. Un conflitto etico che solo nel moderno trova spazio nell’interiorità del singolo. Antigone si scontra con la realtà per cui «l’individuo nello Stato è indifferente; egli incontra l’universale».79 Solo dove lo Stato manca ancora o non lo si riconosce possono sorgere gli eroi. Motivo per cui nella tragedia di Sofocle lo statuto eroico spetta più ad Antigone che a Creonte. La caratteristica dell’eroe è, infatti, l’autonomia. «L’individuo, ferito dall’ordinamento e dal mondo in cui gli uomini ne abusano, si trasforma in nemico dell’ordinamento sociale e gli muove guerra con le proprie forze, vuole […] togliere le assurdità dell’ordinamento.»80 Dunque «gli eroi greci sono o in una condizione che precede le leggi oppure sono fondatori di Stati»81 afferma Hegel. Ma se lo Stato c’è, come nel caso di Antigone, gli eroi sono colpevoli, e tuttavia non perdono quel particolare tratto di valore che ci consente di accostarli ancora agli eroi omerici. A mitigare il vero e proprio eroismo in una figura come Antigone vi è «un tratto di dipendenza» molto marcato. Una stretta concatenazione di azioni e reazioni sta alla base delle trilogie e dei cicli, quello tebano soprattutto, a cui si fa riferimento in questa sede. L’azione di Antigone è il risultato di eventi che la precedono e che la determinano. L’individuo, in realtà, è strumento nelle mani della necessità, tramite cui l’inevitabile si manifesta in maniera illusoria con un’apparenza di libertà. La giustizia, l’armonia, si ha solo nella staticità propria delle sculture. Dall’immobilità si passa al movimento per mezzo dell’impulso ad agire. Oltre alla parola e alla volontà, il movimento caratterizza l’eroe. «Gli Egizi presentavano i loro dei con le gambe unite; sono stati i Greci i primi a scostare braccia e gambe dal tronco e a dare alla figura la posizione dell’incedere.»82 Dalla quiete si è passati alla situazione e da essa, con l’emergere della coscienza, all’azione. Azione tesa al raggiungimento di uno scopo che trascende il singolo stesso. Il sacrificio del singolo rappresenta in qualche modo il trionfo del soccombente e delle sue idee. Il gesto ultimo con il quale la voce che si è levata dal coro viene ridotta al silenzio non è vano. Edipo ha battuto la Sfinge e ha inaugurato la stagione del pensiero. Prometeo ha rubato il fuoco agli dèi. Entrambi sono stati puniti per la loro hybris e per la loro conoscenza, ma di fatto hanno permesso un avanzamento di civiltà. Nonostante gli dèi si siano adirati i risultati raggiunti non sono cancellabili. In tal senso, se prima Nietzsche e poi Nussbaum contrapponevano alla tragedia l’antitragedia socratica, Hegel, per converso, presenta lo stesso destino di Socrate come tragico: egli è eroe in senso proprio. Libera dall’antico e inaugura il nuovo. Il passaggio da una situazione pregressa e obsoleta a una nuova e rivoluzionaria non può di certo registrarsi se non mediante il sacrificio, l’immolarsi dell’eroe, colui che spalanca le porte del cambiamento. Questo, secondo Szondi, rende vicine le teorie di Benjamin e quelle di Hegel, con la sola differenza che, mentre il primo focalizza l’attenzione su di un personaggio quale Edipo, il quale lotta contro una forza demoniaca, il secondo prende in esame Antigone, la figlia di Edipo, colei che appartiene alla generazione successiva dove gli dèi hanno smesso di curarsi delle vicende umane: pertanto ella è costretta a scontrarsi non con la legge divina, ma con una legge umana e arbitraria. Szondi approda alla teoria secondo cui la tragedia avrebbe un andamento dialettico nel quale tutti i momenti lasciano dietro di sé una scia. Non tutto va perduto. «Il lato principale del contenuto dell’arte classica è dunque sostanzialità etica, individualità spirituale, che ha al contempo un momento della potenza naturale.»83 Nel cammino verso la conquista dell’eticità s’incontra per prima la vendetta, la nemesi. La rappresentazione più eclatante di ciò è la celebre lotta tra i Titani e gli dèi olimpici. Prometeo è un Titano che pensa agli esseri umani, ma non fa loro alcun dono etico. Il suo contributo è materiale, egli dà all’uomo la possibilità del progresso tecnico: il fuoco; qualcosa di naturale che è però prerequisito fondamentale per qualsiasi sviluppo. «Questi sono i Titani che sono caduti: Crono: il tempo astratto; Urano, il cielo, il mare, la terra, gli esseri naturali in genere. I nuovi dei […] sono individui.»84 Dopo il trionfo degli dèi olimpici, vecchi e nuovi dèi continuano a scontrarsi. Li troviamo in fondo a tutte le tragedie. Tale lotta che si colloca, per così dire, nell’infanzia della civiltà greca, permane nel fondo di ogni umana lotta: quella di Antigone e Creonte o quella di Oreste. Nell’Orestea, si ripresenta proprio la lotta tra le Eumenidi e Apollo, le divinità ctonie e quelle celesti. «Nella trasformazione che si attua nell’arte greca rimane conservata l’antica stirpe degli dèi.»85 Come il Dioniso nietzschiano che si cela dietro Apollo, come il rimosso che si ribella alla rimozione stessa e spezza le catene della sua prigionia, l’antico permane nel nuovo. La colpa di Edipo rimane intrappolata in Eteocle, Polinice e Antigone. Vi è, nella tragedia greca, una feconda sintesi di natura e spiritualità. Nel moderno invece l’arte ha mostrato di essersi completamente emancipata dalla natura, dall’esteriorità e dall’azione. Basti pensare all’anti-eroe inattivo Amleto. Il dramma si dispiega solo nella sua anima, nella sua coscienza, perché quello è il luogo in cui si consuma la scissione e quello è il luogo in cui si manifesta il conflitto. L’eroe greco, l’eroe in senso proprio, non sceglie veramente la sua azione, egli è carattere: è più di quanto non faccia. Viene definito dal suo essere più che dal suo agire. O meglio la sua azione è diretta conseguenza del suo essere. Egli è pathos, dunque ha poca libertà di movimento, la sua azione è definita sin dal principio. Non colpevole è solo l’inazione. L’eroe deve essere colpevole per essere eroe. Amleto, invece, teme la colpevolezza e non si risolve per la scelta, dunque si mantiene in un limbo. Egli è ammalato di eccesso di coscienza, mentre l’eroe greco è più irruento e meno coscienzioso perché la sua spiritualità è ancora commista alla natura. Per questo secondo Nussbaum «Aristotele, a differenza dei pensatori moderni, preferisce i personaggi esuberanti ed estroversi, che sono pienamente se stessi solo quando agiscono e non si limitano a riflettere».86 Nella seconda parte del suo saggio, Szondi, passa al vaglio otto tragedie tra antiche e moderne, al fine di rintracciarne elementi trasversali, primo fra tutti quello dialettico. Ma su questo tema si tornerà nell’ultimo capitolo, il quale ha l’ambizione di operare un confronto tra tragedia antica e dramma moderno. Tuttavia, qui, non si può tacere su un caso rilevato da Szondi che tornerà utile nell’inquadrare la vicenda di Antigone, figura che ci accompagna in questo viaggio nell’etica. Ci si riferisce alle peripezie di Edipo nell’Edipo re di Sofocle. «Ovunque lo sguardo si fissi nella vicenda dell’eroe, esso incontra quell’unità di salvezza e annientamento che costituisce un tratto fondamentale di ogni tragico. Giacché ad essere tragico non è l’annientamento in sé, ma il fatto che la salvezza si trasformi in annientamento.»87 Questa espressione si addice particolarmente a Edipo. La saggezza, la conoscenza, viene a coincidere con la sventura, con l’autodistruzione a un livello ancora inconscio. In Sofocle le divinità non fanno irruzione nel mondo, esse hanno, tutt’al più, il potere di distribuire tra gli uomini una certa libertà d’azione. «Tragico non è che agli uomini accada qualcosa di terribile per opera della divinità, bensì che questo avvenga proprio a causa dell’agire dell’uomo»88 che, in ogni caso, non ha una reale possibilità di comportarsi diversamente rispetto a quanto mette in atto. «Tre volte l’oracolo […] guida […] l’agire degli uomini e fa sí che siano essi stessi a compiere ciò che è stato decretato su di loro.»89 Il destino dell’eroe deve compiersi. Bisogna prestare attenzione al contenuto delle tre profezie che, nell’Edipo re, l’oracolo pronuncia in momenti diversi. Si noterà subito che l’elemento paradossale attraversa la tragedia in tutto il suo snodarsi. Laio viene a sapere che il destino di Tebe dipende da un fatto singolare: la rinuncia alla progenie. «Per poter avere discendenti, egli deve rinunciare ad averli, giacché l’erede, che di solito è colui che preserva la stirpe dall’estinzione, in questo caso la provocherebbe.»90 Ecco dunque molteplici inversioni: il padre, colui che dona la vita al figlio, avrà la propria vita tolta dal figlio stesso. Edipo incarna in sé l’unità di generazione e distruzione. Generando un figlio, Laio è colpevole di una colpa innocente che dovrà comunque scontare. La necessità che si compia quanto l’oracolo ha predetto è evidente nell’impossibilità, nonostante l’illusoria apparenza, d’invertire il destino. Laio pensa di poter togliere la vita a colui al quale l’ha data per evitare che sia quest’ultimo ad annientarlo. Laio deve uccidere il figlio, non dovrebbe poterlo fare senza macchiarsi del peggiore dei delitti. O almeno, per un autore come Kierkegaard, non potrebbe farlo sul piano etico, nello stadio in cui non si è ancora approdati al religioso, che consente invece ad Abramo di oltrepassare il conflitto etico e uccidere Isacco per volere di Dio, senza peccare. Laio pensa di poter arginare l’aporia etica in maniera non tragica, ma neanche religiosa nell’accezione kierkegaardiana. Dunque, non assumendosi una vera e propria responsabilità tragica, decide di abbandonare il figlio. Questa decisione lo sprofonda nella più totale insicurezza che lo spinge, a distanza di tempo, a mettersi alla ricerca del figlio lungo la strada del destino prospettatogli dall’oracolo. Il secondo oracolo parla a Edipo già adulto e lo induce a fuggire da Corinto e da quelli che crede essere i suoi genitori per fuggire/andare incontro al terribile destino di incestuoso patricida. «In tal modo la consultazione dell’oracolo si capovolge da elemento di salvezza in elemento distruttivo: invece di porre fine all’ignoranza circa i suoi genitori, fa di questa la causa dei terribili avvenimenti futuri.»91 Ancora paradossi: mentre Laio fugge dal suo assassino, Edipo fugge dal suo destino di assassino andando, reciprocamente, la vittima incontro al suo assassino e l’assassino, malgrado se stesso, incontro alla sua vittima.

Così, al trivio padre e figlio si trovano l’uno di fronte all’altro, senza riconoscersi. Quello vuole consultare l’oracolo a proposito di suo figlio, questi lo ha interrogato su suo padre. Ma anziché ottenerne una risposta è solo venuto a sapere ciò da cui ora fugge, per compierlo tuttavia proprio nella fuga.92

Gli opposti si incontrano entro e fuori le singolarità, si toccano e si congiungono portando all’unità dialettica le opposte dualità. Il terzo oracolo, infatti, mostra la ambiguità della figura di Edipo non più incarnata da due persone distinte e separate: nel timore e nella ricerca dell’assassino di Laio, piano piano, s’insinua in Edipo il sospetto, poi tragicamente confermato, di essere egli stesso il ricercato. La verità non è dunque salvezza, ma motivo di annientamento per l’eroe. Una sola persona è al tempo stesso vittima e colpevole. Edipo teme l’assassino di Laio perché teme, forse, di essere egli stesso. Da qui l’ultimo e conclusivo chiasmo: il cieco Tiresia che «vede» la verità e il vedente Edipo privato della «vista» del vero che dopo essere guarito dalla sua cecità metaforica si acceca realmente per non essere mai più costretto a guardare in faccia una verità tanto dolorosa. «La via tragica fra Tebe e Delfi, fra cecità umana e rivelazione divina, percorsa tanto da Laio quanto dal giovane Edipo […], nel re Edipo è per così dire rivolta verso l’interno, come cammino della conoscenza.»93 Tutto conduce all’unità che annienta qualsiasi dualità: «Edipo re cerca gli assassini di Laio di cui ha timore come se potessero essere i propri, e trova se stesso»94 scoprendosi carnefice di suo padre e di se stesso. Vi è, dunque, l’azione umana all’origine della tragedia, ma un’azione che è anche passione e necessità, un’azione che non conosce la vera libertà. Il raggiungimento della verità non può allora che coincidere con l’annientamento dell’individuo. La verità tragica non salva, ma uccide. La massima evangelica «la verità salva» è capovolta: la verità annienta. La verità, nella tragedia, se si vuole, ha un esito positivo dal punto di vista conoscitivo, ma negativo dal punto di vista dell’esistenza. Ma c’è ancora un barlume di ottimismo: la tragedia è una rappresentazione teatrale il cui destinatario è colui che rimane fuori dalla scena e può godere dei frutti della riconciliazione, laddove il soccombente ha visto tramontare il proprio ideale nella sua morte. Lo spettatore è vivo e può gioire della conciliazione avvenuta e farsi testimone di quella permanenza del rimosso che spetta come eredità ai posteri. Nietzsche ha scritto che la tragedia è morta con Euripide proprio nell’atto di rivolgersi agli spettatori, ma essi, in realtà, sono gli unici capaci di resuscitarla. In altre parole l’elemento dionisiaco è stato sacrificato a vantaggio del razionale, ma chi ha detto che il razionale abbia definitivamente vinto la lotta contro l’irrazionale? In fondo Steiner non ha fatto che portare in luce l’attualità della tragedia. Formalmente forse sì, la tragedia si è estinta, ma la sua forza permane. La tragedia non ha mai cessato di esistere perché i suoi temi sono connaturati all’essere umano. La tragedia, ci dice Nietzsche, per i Greci non era solo uno spettacolo ma l’essenza stessa della realtà. L’espressione moderna «questo è soltanto uno spettacolo» non rende giustizia allo spirito con cui i Greci si approcciavano alla tragedia dicendo: «questa è soltanto la verità quotidiana». Oggi, potremmo forse dire: «questo è soltanto uno spettacolo sulla verità quotidiana». A un livello più profondo di comprensione della tragedia, prese le distanze dalla tentazione di considerare i fatti rappresentati come qualcosa di estraneo e lontano perché partoriti dalla mente di uomini vissuti in un’epoca passata, potremmo cogliere che in fin dei conti quegli stessi fatti sono veicolo di manifestazione di sentimenti, emozioni e patimenti che si ripresentano ancora oggi. La fruizione di una tragedia può costituire una pausa dalla realtà che non sia fuga. Un estremo ravvicinamento al pathos umano nelle sue rappresentazioni antiche che ci consentono di mantenere un certo distacco pur non precludendo il sorgere del sentimento della comunanza. Nietzsche aveva forse ragione quando parlava della fine della produzione di vere tragedie, ma Sofocle ed Eschilo sono rimasti immortali e noi possiamo ancora imparare molto da loro. «Ritorniamo sempre a Edipo, a Icaro o ad Antigone come ritorniamo sempre a noi stessi quando le nostre dita sfiorano il nostro volto e il nostro corpo, con una curiosità e un riconoscimento inconsapevoli.»95 Le parole di Steiner paiono le più idonee a chiudere questo breve viaggio nelle teorie sul tragico e a introdurci nel cuore della tragedia stessa: Antigone.

1 G.W.F. Hegel, Lezioni di estetica. Corso del 1823. Nella trascrizione di H.G. Hotho, trad. it. di P. D’Angelo, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 4.

2 Ibidem.

3 Ivi, p. 6.

4 Ivi, p. 7.

5 F. Nietzsche, La nascita della tragedia, trad. it. di S. Giametta, Adelphi, Milano 2013, p. 141.

6 Ivi, p. 98.

7 G. Steiner, Le Antigoni, trad. it. di N. Marini, Garzanti, Milano 1990, p. 116.

8 G.W.F. Hegel, Lezioni di estetica, cit., p. 199.

9 G. Steiner, Le Antigoni, cit., p. 149.

10 Ivi, p. 116.

11 Ivi, p. 128.

12 M. Nussbaum, La fragilità del bene, cit., p. 3.

13 Ivi, p. 682.

14 Ivi, p. 698.

15 Ivi, p. 679.

16 F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 122.

17 M.C. Nussbaum, La fragilità del bene, cit., p. 47.

18 Ivi, p. 680.

19 Ivi, p. 683.

20 Ivi, pp. 681-682.

21 Ivi, p. 682.

22 Ivi, p. 686.

23 Ivi, p. 689.

24 Ivi, p. 690.

25 Ivi, p. 691.

26 Ivi, pp. 691-692.

27 Ivi, p. 693.

28 Ibidem.

29 Ivi, p. 694.

30 Ivi, p. 695- 696.

31 G.W.F. Hegel, Lezioni di estetica, cit., p. 120.

32 Ivi, p. 112.

33 F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 40.

34 Ivi, p. 32.

35 Ivi, p. 45.

36 Ivi, p. 34.

37 Ivi, pp. 64- 65.

38 Ivi, p. 66.

39 Ivi, p. 37.

40 G.W.F. Hegel, Lezioni di estetica, cit., p. 298.

41 F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 39.

42 Ivi, p. 21.

43 Ivi, p. 32.

44 Ivi, p. 105.

45 Ivi, p. 72.

46 G.W.F. Hegel, Lezioni di estetica, cit., p. 153.

47 G.W.F. Hegel, Estetica, a cura di F. Valagussa, La Scuola, Brescia 2013, p. 54.

48 Ivi, p. 53.

49 G.W.F. Hegel, Lezioni di estetica, cit., p. 99.

50 F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 113.

51 G.W.F. Hegel, Lezioni di estetica, cit., p. 96.

52 Ivi, p. 97.

53 Ivi, p. 96.

54 Ibidem.

55 Ivi, p. 100.

56 Ivi, p. 297.

57 G.W.F. Hegel, Estetica, cit., p. 81.

58 G.W.F. Hegel, Lezioni di estetica, cit., p. 256.

59 Ivi, p. 262.

60 G.W.F. Hegel, Estetica, cit., p. 100.

61 M.C. Nussbaum, La fragilità del bene, cit., p. 45.

62 Ibidem.

63 G.W.F. Hegel, Lezioni di estetica, cit., p. 294.

64 G.W.F. Hegel, La fenomenologia dello spirito, trad. it. di G. Garelli, Einaudi, Torino 2008, p. 482.

65 Ivi, p. 484.

66 F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 71.

67 G.W.F. Hegel, Estetica, cit., p. 103.

68 G.W.F. Hegel, Lezioni di estetica, cit., p. 292.

69 Ivi, p. 293.

70 Ibidem.

71 F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cit., p. 124.

72 Ivi, p. 54.

73 Ivi, p. 57.

74 G.W.F. Hegel, Lezioni di estetica, cit., p. 273.

75 Ivi, p. 286.

76 Ivi, p. 278.

77 Ivi, p. 89.

78 Ivi, p. 280.

79 Ivi, p. 81.

80 Ivi, p. 85.

81 Ivi, p. 82.

82 Ivi, p. 87.

83 Ivi, p. 165.

84 Ivi, p. 161.

85 Ivi, p. 160.

86 M. Nussbaum, La fragilità del bene, cit., p. 681.

87 P. Szondi, Saggio sul tragico, trad. it. di G. Garelli, Einaudi, Torino 1996, p. 79.

88 Ivi, p. 80.

89 Ibidem.

90 Ivi, p. 81.

91 Ivi, p. 83.

92 Ibidem.

93 Ivi, pp. 85-86.

94 Ivi, p. 86.

95 G. Steiner, Le Antigoni, cit., p. 145.

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