La fragilità dell'uomo

di Maura Campo

INTRODUZIONE

«L’Antigone è un dramma sulla ragione pratica e sul modo in cui la ragione pratica ordina o vede il mondo. […] Inizia ponendo la parola “Sai?” […]. Finisce affermando che la saggezza pratica (to phronein) è la parte più importante del buon vivere umano (eudaimonia […]).»1

Questo è quanto scrive Martha C. Nussbaum, autrice dell’opera a cui fa riferimento, già nel titolo, questo lavoro. La fragilità del bene diviene qui La fragilità dell’uomo. La figura di Antigone ricorre per il ruolo privilegiato che riveste in quello che Steiner definisce «valore imperituro della tragedia». La sua è, all’interno della filosofia, una funzione preziosissima per via delle innumerevoli considerazioni di cui si fa portatrice in merito al potere e alle possibilità umane. L’etica tragica mostra l’insolubilità dei conflitti pratici; per questo è stata spesso tacciata di «primitivismo». Con l’intento di oltrepassare un simile preconcetto, convinta che la tragedia non insegni a morire, quanto piuttosto a vivere, Nussbaum ha tentato di ricavare dalle tragedie un invito alla vera saggezza: quella pratica. Ciò che rende l’eroe tragico «primitivo» è la sua concezione erronea della morale: egli si perde nel rifiuto di un vero e proprio confronto con l’altro, considerato una minaccia alla propria integrità. È affetto da un’estrema parzialità che vuole illusoriamente essere assoluta. In tal senso l’esemplarità della cultura greca è, per un verso, negativa: l’uomo moderno può ricavare dal tormento degli eroi tragici un monito contro la «presunzione» della morale intellettualistica che risulta spesso parziale e astratta, più teorica che pratica. L’hamartia, l’errore stesso, diviene prezioso strumento conoscitivo, così come la sofferenza assume un carattere pedagogico irrinunciabile. Con il suo pathei mathos Eschilo ci suggerisce che nel dolore matura la conoscenza umana e solo così si fa possibile la vera e propria katharsis. Nussbaum ha così suggerito una lettura della tragedia fedele a quella aristotelica, non per questo priva di elementi innovativi. A questo si avvicinava, in effetti, l’obiettivo primario nel progetto di questo studio: compiere e suggerire una riflessione sul tragico che potesse aprire la strada a un insieme di considerazioni sulla condizione umana, che non ne negassero l’autonomia ma che ne ridimensionassero le pretese. Ma a dare il La è stata soprattutto la lettura dell’opera di Kierkegaard Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno: uno scritto in cui il filosofo danese rivela una certa consonanza con il pensiero hegeliano. Nell’opera viene posta in rilievo la possibilità di una relazione dialettica tra tragedia antica e moderna. La continuità tra il tragico antico e il moderno è simile a quella che caratterizza il rapporto tra il ghenos e l’individuo, per il quale la totale autonomia rimane un’aspirazione frustrata. Kierkegaard sceglie la figura di Antigone per tentare il suo esperimento: far rivivere nel tragico moderno alcuni tratti del tragico antico, per approdare hegelianamente al concetto del «vero tragico». Il bersaglio polemico del filosofo danese è, come per Nussbaum, quell’etica che rifiuta l’intrascendibilità del tragico, di ogni umano conflitto. Con Kierkegaard, la figlia di Edipo è tornata a suscitare un interesse antico e la sua seduzione su chi scrive è stata potente. Antigone è una figura che ha esercitato e continua a esercitare un notevole fascino su molti studiosi, la sua è una tragedia che porta a interrogarsi su importanti temi, quali la giustizia, i rapporti familiari, il sacrificio personale, la trasgressione delle norme. Antigone è senza dubbio un personaggio rivoluzionario e il suo nome viene qui accostato all’etica, perché se è vero che essa debba occuparsi della liceità degli atti umani, è anche vero che colui che se ne occupa non può trascendere la propria condizione di essere umano fallibile. Il mito di Antigone e la forma artistica con la quale ci è stato tramandato sono allora fondamentali nel metterci in guardia da qualsiasi pretesa di giudizio esente da errori. Con Antigone si scopre che il discorso etico è già implicito nella tragedia. Come scrive Edoardo Ferrario: etica e tragedia, rappresentazione artistica e discorso filosofico non sono che due modi di dire il medesimo. La tragedia, in quanto forma artistica, persiste e resiste alla rimozione della logica. Il tragico si annida da sempre e ancora nel discorso filosofico.

La strada che qui s’intende percorrere è costellata da alcune tappe segnate dall’influenza di diverse forme poetico-artistiche: l’epica, la tragedia e il dramma. Permea l’intero lavoro la convinzione aristotelica che, senza nulla voler togliere alla storia, la letteratura e il teatro, con il loro appello alla sensibilità, abbiano un ruolo privilegiato nella definizione e nell’analisi delle problematiche esistenziali. Accanto ad Antigone, protagonisti di questo «viaggio nell’etica», molti personaggi cari a Kierkegaard mutuati sia dalla tradizione greca sia da quella moderna, insieme a figure del cristianesimo. L’obiettivo è quello di mostrare che la tragedia, e poi il dramma moderno, per la forte carica emotiva di cui si fanno portatori, hanno un ruolo imprescindibile e fondamentale nella considerazione, e talvolta risoluzione, dei dilemmi morali che l’essere umano è chiamato ad affrontare nel corso della propria vita.

Il primo capitolo ha per titolo «La realtà tragica». Si sottolinea in esso la necessità di considerare il ruolo del mito nella filosofia. Il mythos non si limita ad anticipare, ma compenetra lo stesso logos e lo rende più ricco e accessibile. Si cerca, per questo, di mettere in evidenza il valore che le narrazioni mitologiche assumono nelle questioni umane ordinarie e straordinarie. Ci si interroga, quindi, sulla verità delle affermazioni nietzschiane riguardo alla morte della tragedia. E ci si chiede, con risposta affermativa, se essa possa ancora rivestire una qualche importanza nell’ambito delle considerazioni sull’etica. Con una breve introduzione sulla tragedia in quanto forma di espressione prediletta dai Greci, e sulla risonanza che autori come Nietzsche e Hegel le hanno dato, ci si fa gradualmente strada entro le tragedie di Sofocle, eleggendo i suoi personaggi a figure chiave per comprendere sia il ruolo del fato e della fortuna (allegorie di tutto ciò che si sottrae al controllo umano) sia gli insegnamenti che lo spettatore antico e moderno può trarne. Come si leggerà più avanti, «l’uomo è un’isola» non sta a indicare che l’essere umano è isolato e autonomo, esente da qualsiasi influenza e contatto con l’esterno, ma, viceversa, che egli è circondato e sorretto da un «mare» di condizionamenti che devono mettere in discussione l’ideale di libertà assoluta. La tragedia è in questo maestra. Pertanto, se dal punto di vista formale, nel moderno è venuta meno, essa conserva ancora un potenziale illuminante che il filosofo e lo studioso di filosofia hanno il compito di risvegliare. Nel secondo capitolo, «I volti di Antigone», si entra a pieno titolo nel cuore della vicenda che vede protagonista l’eroina tebana, per sviluppare una molteplicità di questioni di ordine morale sollevate già implicitamente da Sofocle e sviluppate da tre diversi autori come Hegel, Simon Weil, Bultman, ma anche Ricoeur, Derrida o ancora Lacan. Si coglierà, alla fine dell’esposizione di ogni tema, un continuo approdare al problema della coscienza. La tragedia, infatti, permette di sondare il rapporto che nel processo di raggiungimento della piena autocoscienza si instaura tra identità e alterità. La profonda analisi della tragedia dovrebbe condurre dal misconoscimento dell’altro – o dal suo riconoscimento polemico come minaccia ai confini dell’Io – alla consapevolezza della specularità e interdipendenza tra ipse e alter. Contro l’esclusività di un approccio intellettualistico alla morale, si pone ancora in risalto una saggezza spesso sottovalutata dal pensiero moderno: quella che ammette i limiti della conoscenza razionale di cui si fa rappresentante il personaggio di Creonte. Con la consapevolezza hegeliana che a esso non spetti il semplice titolo di antagonista o carnefice, ma che Antigone stessa mostra una certa cecità nei confronti della giustizia. Ella non è semplice vittima, ma altrettanto colpevole. Nelle figure di Antigone e Creonte il principium individuationis si mescola con il tema dei fondamenti della politica e si rovescia nell’abnegazione. L’ambivalenza degli eroi mostra proprio quella commistione tra efficacia e insufficienza che caratterizza l’eticità greca e che ci fa prendere coscienza della necessità di un esame più complesso e profondo dei dilemmi morali. L’eroina greca qui scelta, come una scultura a tutto tondo, viene esaminata da differenti prospettive e assume così molteplici volti, tanto da indurre a pronunciare il suo nome al plurale: Antigoni. Nell’ultimo capitolo, sulla scorta di Kierkegaard, a partire dalla trasposizione della tragedia greca nel mondo moderno, si darà maggiore risonanza alla «voce interiore» della coscienza del singolo rispetto all’azione esteriore dell’eroe tragico. Pertanto il titolo «Dalla scissione del coro alla scissione dell’Io» è idoneo a rendere fluido il passaggio dialettico dello spirito tragico nella sensibilità moderna. La sua permanenza al di fuori della civiltà greca è possibile solo grazie al guadagno di un posto entro la neonata interiorità. Facendo cenno a numerose opere letterarie e teatrali di epoca moderna, si cercherà di mostrare come i grandi temi della tragedia non siano del tutto tramontati. Vicende come quella di Amleto, Otello, Leo Armenio, mettono in risalto come la tanto celebrata libertà moderna incontri numerosi ostacoli e debba fare i conti con l’ignoranza, l’assenza di lucidità, l’inconsapevolezza, l’errore e finanche l’inganno. Di fronte all’emergere di una siffatta debolezza umana un autore come Kierkegaard riconosce una sola via d’uscita: la fede. Di Abramo, di Giobbe. La sola strada possibile per la Ripresa: quella mediazione tra ipse e alter, tra l’estetico e l’etico, tra il finito e l’infinito, il temporale e l’eterno, tra l’impotenza del Sé greco e la presunzione del Sé moderno. Sul finire di questo lavoro, dunque, attraverso la lente dei tre stadi della vita individuati dal filosofo danese, un confronto tra eroi tragici e figure religiose darà vita a un coro di voci e di silenzi che si ergono a testimonianze della preziosa complessità e fragilità dell’uomo, la quale ci costringe ad ammettere che in alcuni casi gli imperativi dell’etica debbano essere messi, per così dire, tra parentesi. La stessa Antigone con il suo gesto di ribellione contro il nomos temporale intende denunciare il carattere «umano troppo umano» delle istituzioni, per questo la sua figura permea fino alla fine le considerazioni qui riportate. Il lavoro si conclude con il riferimento kierkegaardiano all’Amleto di Shakespeare come tragedia che lascia spazio alla duplice possibilità di una considerazione tanto estetica quanto religiosa, mostrando i punti di contatto tra arte e religione e chiudendo così il cerchio rispetto a uno dei punti di partenza di questo lavoro: la «vocazione religiosa» delle tragedie nel mondo greco.

1 M.C. Nussbaum, La fragilità del bene, trad. it. di G. Zanetti, il Mulino, Bologna 2011, p. 134.

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