PIANTAGIONI, SCHIAVITÙ E PROCESSI ECONOMICO-SOCIALI NELLE TERRE DEL NUOVO MONDO

di Martina Savoca

Introduzione

È opinione diffusa tra diversi studiosi quella per cui l’ascesa delle grandi potenze occidentali in età moderna, con il conseguente colonialismo di cui si fecero foriere, abbia avuto come sottoprodotto la nascita di veri e propri regimi schiavisti, con lo sviluppo di un commercio e di uno sfruttamento di circa 12 milioni di esseri umani che nel Nuovo Mondo registrò una notevole crescita, in particolare dopo il 1700, e che continuò a prosperare fino agli anni Ottanta del secolo successivo. Tratto caratteristico dei sistemi di schiavitù, originatisi proprio nel continente americano, fu lo sviluppo della piantagione, insieme ad un livello di definizione razziale ben più accentuato rispetto a quello che rintracciamo nei sistemi di schiavitù di età antica; in passato, infatti, greci e romani non consideravano i prigionieri come appartenenti ad una particolare e specifica razza e non molta importanza veniva dato al colore della loro pelle. Peraltro, se da una parte riconosciamo che da sempre lo status di schiavo ha direttamente implicato la nozione di proprietà privata, nozione che ha ridotto l’essere umano a puro oggetto di cui disporre, la tratta atlantica, unita al sistema delle piantagioni, ha contribuito a mercificare ancor di più la figura del servo, disegnando un profilo dello schiavo e del lavoratore che in linea di massima ha finito per individuare in quest’ultimo una mera forza lavoro da cui generare il massimo del surplus possibile.

Tale logica portò persino a ideare meccanismi controversi e strategie di generazione del surplus per cui un fattore come il cibo, normalmente determinante per l’energia richiesta da un lavoro particolarmente faticoso, cominciò in parte ad essere negato al fine di generare un incentivo molto forte come la fame, nella speranza che tale incentivo avrebbe spinto i lavoratori a produrre una quantità di lavoro ancora maggiore, sotto l’impulso incontrollabile delle necessità del corpo. Tratteremo brevemente questo particolare aspetto nelle pagine che seguono.

In questa prospettiva, aumento dei profitti e intensificazione dello sfruttamento si mostrano direttamente proporzionali.

Un’attenzione specifica al rapporto esistente tra sistema schiavistico americano e sviluppo del commercio atlantico, con la concomitante ascesa del capitalismo e i suoi enormi profitti generati, viene posta da due illustri studiosi i cui rispettivi lavori verranno trattati di seguito.

I volumi cui facciamo riferimento sono Il crogiolo americano di Robin Blackburn e Coffeeland. Storia di un impero che domina il mondo di Augustin Sedgevick. Entrambi gli autori offrono una panoramica del ruolo rivestito dalle piantagioni nella produzione di prodotti diventati poi di massa, tracciano inoltre il legame che permise ad una parte del mondo occidentale di sperimentare un benessere sempre crescente, di contro ad una povertà sistematica costruita nel Nuovo Mondo, grazie al quale tale benessere fu possibile.

Tuttavia, gli approcci impiegati risultano differenti e le questioni trattate, seppur si intreccino, seguono percorsi diversi.

  1. Il crogiolo americano

Nel suo lavoro R. Blackburn ripercorre la storia della schiavitù, nello specifico quella africana che interessò il periodo compreso tra il XVI e il XIX secolo e, a partire da una ricostruzione dei momenti che ne segnarono l’ascesa, il presente libro ci offre un’analisi dettagliata anche dei momenti in cui tale regime schiavista cominciò ad essere messo in discussione, con il conseguente abolizionismo cui si pervenne e le varie resistenze che decretarono la fine dei sistemi schiavisti nel Nuovo Mondo negli anni Ottanta dell’800.

Ampia parte della sua trattazione è inoltre riservata alla rivoluzione haitiana e al ruolo che a suo avviso ebbe nel fornire un modello positivo e un esempio di successo per la soppressione della schiavitù; d’altra parte, nel sostenere la sua posizione rileva però come tale importanza non le sia stata spesso attribuita, ricordandoci che gli stessi Stati Uniti non la riconobbero fino al 1862.1 Peraltro, l’insurrezione concretizzatasi permise di estendere il diritto di cittadinanza al di là delle barriere razziali, e ciò è significativo dal momento che il terreno per la rivoluzione venne di fatto preparato dagli scontri tra oppositori e sostenitori di tale estensione di cittadinanza ai proprietari di colore liberi, presenti nell’isola di Saint-Domingue. Inoltre, nell’affermare il ruolo di Haiti relativamente all’invigorirsi del processo abolizionista, Blackburn rileva che i precedenti avvenimenti, consumatisi sull’isola caraibica, agirono da incentivo per l’approvazione della legge contro la tratta degli schiavi, approvata dal Parlamento britannico nel marzo del 1807. Secondo quello che viene riportato nel testo, se il provvedimento abolizionista di quell’anno ebbe successo in Gran Bretagna, parte delle motivazioni furono da attribuire all’eliminazione della schiavitù sul territorio di quella colonia che, in precedenza, aveva rappresentato il maggiore produttore di zucchero del mondo atlantico; i parlamentari britannici, pertanto, non ebbero la preoccupazione verso i proprietari di piantagioni di cittadinanza inglese, dal momento che questi non avrebbero più dovuto competere con i prezzi concorrenti offerti dai produttori della colonia francese. Ora, sicuramente questo non rappresentava l’unico impulso che spinse i britannici sulla strada dell’abolizionismo, tuttavia fu di certo un precedente determinante.

Ma prima di percorrere alcuni dei momenti salienti dell’abolizionismo degli anni a venire, ricostruiamo sinteticamente il percorso seguito da Blackburn nella sua esposizione.

Per cominciare, la sua analisi ci propone la suddivisione di tre tipi di schiavitù relative al Nuovo Mondo che si distendono in tre rispettive epoche diverse: il tipo barocco, il tipo mercantile, il tipo industriale. In primo luogo, quella che lui definisce di stile barocco è una schiavitù legata principalmente al periodo compreso tra il 1500 e il 1650, connessa alla prima fase della colonizzazione ispano-portoghese in cui l’interesse fu primariamente rivolto all’oro e all’argento; questo interesse veniva particolarmente mostrato sia dagli Stati che dai mercanti. Nel primo caso perché le potenze europee si stavano dotando progressivamente di eserciti permanenti e questo richiedeva di conseguenza delle considerevoli somme di denaro da investire; dal canto loro, i mercanti europei necessitavano di altrettanto oro e argento per poter acquistare le spezie orientali. È importante aggiungere che in questa prima fase gli schiavi di origine africana ebbero un ruolo più marginale, poiché a rappresentare la principale forza lavoro furono gli indigeni delle terre colonizzate che vennero impiegati per fornire servizi di manodopera, pur non essendo formalmente ridotti in schiavitù.

In secondo luogo, la schiavitù di tipo mercantile, compresa tra il 1650 e il 1800, si caratterizza principalmente per il nuovo ruolo assunto dalle piantagioni e i loro concomitanti commerci che spinsero i vari stati atlantici nel tentativo di monopolizzare le esportazioni di vari prodotti; questa crescente importanza dei commerci fu per larga parte sollecitata dai gusti di nuovi consumatori che, disponendo di denaro contante, rendevano la produzione e la commercializzazione molto più redditizia.

Infine, il terzo tipo di schiavitù, coincidente con l’epoca industriale, vide il proliferare di un sistema di sfruttamento non più tanto dipendente dagli Stati di riferimento, che nel corso dell’800 intrapresero la strada verso l’abolizionismo, seppur lentamente e con non poche difficoltà, ma soggiogato piuttosto dalla domanda di massa dei mercati globali. Di conseguenza gli schiavi impiegati nelle piantagioni vennero dislocati in grandi estensioni di terreno, dal momento che una domanda sempre crescente poteva essere soddisfatta solo da una produzione ancora maggiore. Stati Uniti, Brasile e Cuba fecero da protagonisti in questa nuova fase.

Come abbiamo già accennato, la schiavitù di tipo barocco fu maggiormente legata all’interesse relativo a metalli preziosi, quali oro e argento, e tale interesse si protrasse fino al XVII secolo, in un momento in cui la coltivazione del tabacco o dello zucchero non sembrarono presentarsi come delle colture redditizie. Tuttavia, esistevano delle piantagioni in cui si coltivava in particolar modo lo zucchero, anche se il loro possesso era limitato ad alcuni esponenti dell’élite e, perdipiù, le navi della flota imperiale richiedevano delle spese troppo elevate per il trasporto di beni di consumo di massa.

Ad ogni modo, a prendere piede furono delle piantagioni le cui coltivazioni rientravano nella categoria di prodotti di prima necessità, tra questi ad esempio il mais.

Se il sistema delle piantagioni non assunse un carattere proficuo e duraturo, dobbiamo comunque segnalare che tale fattore non impedì la massiccia importazione di schiavi africani in territorio spagnolo. L’aumento della presenza di prigionieri spagnoli venne resa possibile anche per mezzo della decisione da parte della Corona di vendere l’asiento2 ai portoghesi, concedendo di fatto a questi ultimi il diritto di deportare via mare centinaia di prigionieri africani, per venderli ai coloni spagnoli, in particolare nelle città di Avana e Cartagena.

La necessità di ricorrere all’importazione di prigionieri africani, che alla fine del XVII secolo raggiunsero un totale di 350 000 uomini, fu comunque dettata dall’esigenza di sopperire alla mancanza di manodopera indigena, causata sostanzialmente dall’enorme numero di vittime provocate principalmente da due fattori: i ritmi di lavoro richiesti nella ricerca dell’oro e l’esposizione a nuove malattie nei confronti delle quali non avevano ancora sviluppato agenti patogeni adeguati. Peraltro, quando i provvedimenti della Corona in difesa degli indios condussero alla nomina dei caciques (capi nativi di alcune comunità tribali) allo scopo di proteggerli dalla riduzione in schiavitù, le precedenti encomiendas3 concesse dalle autorità reali ai capitani che sembravano loro più affidabili, non privarono questi ultimi del diritto di esigere dagli indios dei tributi o di chiedere loro delle prestazioni di lavoro a corvée. Queste circostanze spinsero i nativi a evitare le cittadine spagnole e di conseguenza si generò quell’assenza di forza lavoro che venne compensata dall’impiego di schiavi africani.

Se la Spagna non riuscì a sostenere lo sviluppo di un mercato di piantagioni su larga scala, d’altra parte un tale mercato andò gradualmente affermandosi in alcune isole atlantiche portoghesi e già a metà del XVI secolo le piantagioni di zucchero si diffusero in Brasile, dove i portoghesi avevano creato delle comunità luso-brasiliane e dato quindi vita a degli stretti legami commerciali. Qui la coltivazione dello zucchero crebbe molto in fretta, anche a grazie a nuove importanti innovazioni introdotte per la sua produzione.

Ben presto l’egemonia portoghese trovò degli ostacoli, da una parte negli olandesi che cercarono di stabilire il loro controllo nelle piantagioni di zucchero brasiliane, ma comunque non riuscirono a garantire la sopravvivenza di un controllo olandese sul Brasile4, e d’altra parte in inglesi e francesi, attirati dalla possibilità di accumulare nuovi profitti. Anche se inizialmente inglesi e francesi impiegarono nelle piantagioni lavoratori a contratto salariati5, ben presto si resero conto dei vantaggi di una manodopera schiava, permanente e meglio qualificata. In effetti, gli schiavi non potevano decidere liberamente di andare via e soprattutto non disponevano della facoltà di chiedere aumenti di paga; il lavoro richiesto nelle piantagioni era molto spesso complesso e richiedeva del tempo per essere padroneggiato. Mentre i lavoratori a contratto andavano via dopo qualche anno, gli schiavi erano costretti a rimanere e questo li rendeva una forza lavoro maggiormente qualificata e dunque più preziosa. Per non parlare poi della loro predisposizione fisiologica che li rendeva meno vulnerabili alle malattie endemiche di quanto lo fossero gli europei salariati.

È così che dalla metà del XVII secolo, le piantagioni con schiavi guidarono la crescita economica atlantica.

A distanza di un secolo, negli anni '70 del Settecento, le esportazioni coloniali garantite dal lavoro della manodopera schiava coprivano un terzo del commercio dei principali stati atlantici; questo impulso alla crescita economica non subì arresti nei decenni successivi e diede vita nel corso del tempo a profondi cambiamenti economici, politici e sociali. Uno degli impulsi derivanti da questo sistema di economia in crescita su cui Blackburn pone la sua attenzione è il contributo offerto dal Nuovo Mondo alla Rivoluzione industriale. In effetti, la produzione nelle piantagioni offriva una fonte inesauribile di beni, capitali e materie prime necessarie alla nuova industria e per di più, il boom produttivo nella regione atlantica fornì le basi per lo sviluppo della cantieristica, con la maggiore costruzione e manutenzione di navi mercantili.

Nell’analizzare la tesi di Eric Williams6 ed esporre le sue personali convinzioni, Blackburn elenca quelli che per lui furono i contributi all’industrializzazione legati allo schiavismo e tra questi troviamo: i profitti derivati dall’attività mercantile e dalle piantagioni; la capacità di queste ultime di fornire materie prime a basso costo; il contributo offerto ancora dalle piantagioni alla creazione di un nuovo mondo di consumi; la capacità di queste di superare periodi di crisi.7

Il nostro autore ci tiene comunque a precisare che lo schiavismo non rappresentò comunque di per sé la causa della Rivoluzione industriale, piuttosto funse da grande stimolo al cambiamento per i motivi sopra illustrati.

Come sappiamo i sistemi schiavistici perdurarono nel tempo e continuarono ad avere vita per quasi tutto l’Ottocento, trovando la strada per l’emancipazione solo gradualmente e in un processo che non fu né rapido né lineare.

Negli anni '60 del Settecento, qualche voce isolata iniziò a criticare apertamente la schiavitù, ma nei fatti l’attenzione rivolta a questa tematica rimase per diverso tempo secondaria. Tuttavia, qualche preoccupazione i proprietari di schiavi del nord- america cominciarono a percepirla per la sentenza del caso Sommersett del 1772. Con essa Lord Mansfield, che si era occupato del caso, sentenziava il mancato diritto di un proprietario della Virginia di costringere un suo servitore a tornare in America, qualora quest’ultimo ne avesse abbandonato precedentemente il suolo. Le cause legali a favore di schiavi, intentate tra anni '60-'70 del Settecento, furono diverse e si verificarono in Inghilterra, in Francia e anche negli Stati Uniti. Ciononostante, queste cause miravano più all’emancipazione di singoli schiavi che non ad una generale messa in discussione del regime in atto nelle colonie e pertanto i risultati furono limitati. Nello stesso periodo, a sollevare però una ferma denuncia, additando come violente e peccatrici le pratiche destinate agli schiavi nelle colonie, fu il gruppo dei quaccheri della Society of Friend che nel 1787 fondarono, peraltro, la prima associazione abolizionistica chiamata Abolition Society.

Oltre a questo, Blackburn ci informa sul fatto che la prima sostanziale accusa letteraria diretta alla schiavitù fu ad opera di George Wallace nel suo A System of the Principles of the Laws of Scotland; Cordorcet dal canto suo nel 1781 pubblicò le Riflessioni sulla schiavitù dei negri che offrivano, insieme alla denuncia, anche un programma pratico per l’eliminazione della schiavitù, prevista tuttavia non nel breve periodo, ma in un arco di tempo davvero molto lungo grazie al quale si sarebbe potuto rendere questo cambiamento graduale e non immediato. A tutto questo bisogna aggiungere l’insieme di opuscoli, pamphlet e l’insieme dei prodotti della stampa culturale responsabili di aver diffuso conoscenze e nuove consapevolezze sulle pratiche della schiavitù.

Tra questi, di fondamentale importanza fu quello di Henry Brougham pubblicato nei primissimi anni dell’Ottocento. In esso Brougham assicurava i proprietari delle piantagioni che la soppressione della tratta non avrebbe ridotto il valore delle loro proprietà, ma che al contrario i costi dell’abolizioni sarebbero stati molto lievi, mentre il guadagno che ne sarebbe derivato sarebbe stato di gran lunga maggiore. La soluzione alle conseguenze della fine della tratta consisteva proprio nella promozione della vita famigliare tra gli schiavi che ne avrebbe aumentato la natalità interna e avrebbe scongiurato la necessità di nuove importazioni.8

Ciò che ne derivò fu una nuova e accresciuta consapevolezza popolare che andò a legarsi in certi casi anche ad una diffusa ostilità verso i processi del mercato e le sue oscillazioni, in particolar modo quelle che generavano periodi di miseria e aumento dei prezzi.

Ad ogni modo nel 1804 la Camera dei Comuni in Inghilterra stabilì un disegno di legge che poneva fine alla tratta degli schiavi, tale legge sarebbe stata realmente formalizzata e approvata nel 1807. Come accennavamo nella parte iniziale di questo paragrafo, nel procedere verso il progetto abolizionista, la Gran Bretagna trovò in parte una spinta nei recenti fatti di Saint-Domingue che eliminarono la concorrenza di quello che era stato fino a poco tempo prima il maggiore produttore di zucchero. Perdipiù, dopo la sconfitta degli alleati della Gran Bretagna ad opera di Napoleone nel 1805-1806, l’Inghilterra aveva realmente bisogno di abbracciare una causa nobile che potesse dare alla popolazione inglese un ottimo motivo per continuare quel conflitto. Ma un altro incentivo per gli inglesi derivò anche dall’azione degli Stati Uniti e dall’intenzione del Congresso di porre fine alla tratta nel più breve lasso di tempo possibile.

In sequenza le altre potenze si allinearono alla posizione di Stati Uniti e Gran Bretagna sul provvedimento abolizionista e lo stesso Napoleone, dopo un primo tentativo di ricostruire le piantagioni francesi sul territorio di Saint- Domingue, emanò un decreto che vietava alla Francia la tratta degli schiavi. Spagna e Portogallo firmarono anche loro, come la Francia, un negoziato bilaterale con l’Inghilterra che imponeva di porre fine alla tratta nel breve periodo.

Queste premesse comunque non impedirono il conseguimento dell’importazione illegale di schiavi, che negli anni '20 dell’Ottocento raggiunsero la cifra di decine di migliaia di unità, e sarà proprio questo traffico illegale che darà l’impulso alle prime riflessioni sulla necessità di un processo di emancipazione; solo un tale provvedimento, a detta di alcuni, avrebbe di fatto reso possibile la definitiva cessazione della tratta di esseri umani. Dobbiamo inoltre rilevare che se da una parte le nuove misure a favore dell’abolizionismo avrebbero contribuito a riservare un miglior trattamento agli schiavi rimasti -dal momento che cessata la possibilità di nuove importazioni bisognava tutelare la popolazione schiava già presente e permetterle di prosperare per mezzo di un incremento naturale- d’altra parte le pressioni in molti casi vennero addirittura moltiplicate e le repressioni accentuate a causa della paura di possibili ribellioni, come quella concretizzatasi in Giamaica nel 1831 e conosciuta come la «guerra dei battisti». In questa occasione, circa 30 000 schiavi armati di machete abbandonarono le piantagioni per manifestare e chiedere libertà. Ovviamente la reazione dei padroni fu radicale e la dimostrazione venne soppressa nel sangue.

È importante sottolineare che molti tra i proprietari di schiavi e di piantagioni erano in realtà in linea di principio favorevoli alla fine della schiavitù, questo soprattutto per un sentimento di stanchezza derivato dalla consapevolezza di essere dipendenti proprio da questo sistema, e ciononostante questi stessi piantatori si chiedevano come avrebbero potuto sopperire alla scomparsa della manodopera, conseguente all’emancipazione, continuando a garantire la produzione dei medesimi flussi di prodotti, generati ora dal lavoro degli schiavi. La produzione in alcuni casi si affievolì come per l’esempio della Giamaica, ma in molti altri casi non si verificarono grandi collassi economici: nelle Indie Occidentali britanniche al posto degli schiavi vennero introdotti nuovi lavoratori a contratto provenienti dall’India; In Guyana la produzione di zucchero restò stabile; le Barbados non registrarono cali e nemmeno aumenti.

Sebbene il processo abolizionista registrò diversi risultati, i provvedimenti legislativi e la nuova consapevolezza antischiavista non impedirono agli Stati del Sud americani, a Cuba e al Brasile di mantenere un regime schiavista che nel caso del Brasile ebbe vita fino agli anni '80 dell’Ottocento e gli permise di diventare il maggiore produttore ed esportatore di caffè nel mondo, con un aumento della produzione che tra il 1830 e il 1870 addirittura si triplicò.

Larga parte di questa persistenza e resilienza dimostrata da Stati del Sud, Cuba e Brasile fu dettata dalla mancanza di un reale impegno a controllare la tratta illegale che nel loro caso non si arrestò; c’è da aggiungere che una parte di responsabilità in questo senso fu da attribuire ai mercanti e capitani statunitensi che ebbero un ruolo importante nel proseguimento del traffico di prigionieri, senza contare che il rifiuto da parte degli Stati Uniti di concedere il diritto di perquisizione da parte dello squadrone inglese dispiegato per il pattugliamento e il controllo delle navi nell’Atlantico permise a molte imbarcazioni di utilizzare documenti di viaggio americani falsi e sventolare la bandiera statunitense, procedendo di conseguenza inosservate.

Per concludere, il cammino dell’abolizionismo e dell’emancipazione fu lungo e segnato da differenti fasi alterne, caratterizzate da successi e regressioni. Anche se alla fine dell’Ottocento l’abolizionismo investì anche quei territori che si erano resi protagonisti della nuova schiavitù, seguita ai procedimenti legislativi a favore della sua soppressione, le società successive all’emancipazione avrebbero comunque mantenuto e consolidato per la maggior parte dei casi delle strutture sociali razzialmente stratificate e decisamente oppressive.

Se è vero che la schiavitù e la tratta vennero abolite, questo non impedì di creare una nuova forza lavoro regolamentata, ma sottoposta a duri regimi di lavoro coatto e forzato.

1Il nuovo stato di Haiti venne istituito nel 1804, parecchi anni dopo l’inizio degli eventi che causarono lo scoppio della rivolta di schiavi, avvenuta nell’agosto del 1791.

2Contratto con privati o trattato con un altro paese che stabiliva la fornitura degli schiavi negri nelle colonie americane della Spagna

3Istituzione spagnola che affidava a dei coloni spagnoli il compito di proteggere gruppi di indigeni. Di fatto l’istituzione si trasformò in molti casi in un sistema di sottomissione.

4La Compagnia olandese delle Indie Occidentali puntò i suoi interessi verso la ricchezza del Brasile. Un primo intervento si verifico con l’attacco a Bahia del 1624 che tuttavia venne respinto. Ciononostante, sei anni dopo con una nuova spedizione gli olandesi riuscirono a prendere Pernambuco, un’importante area produttrice di zucchero.

Nel 1644 una rivolta portoghese riuscì a sottrarre agli olandesi gran parte dell’interno, lasciando ai loro rivali il controllo delle zone attorno ai porti. La ritirata definitiva della Compagnia delle Indie Occidentali dal Brasile avvenne a distanza di circa un decennio, nel 1654.

5Lo stesso avvenne per circa cinquant’anni nelle piantagioni di tabacco nordamericane.

6In Capitalismo e schiavitù (1944) E. Williams sostiene che i profitti dei sistemi schiavisti avevano fecondato molti settori economici della madrepatria e preparato il terreno per la Rivoluzione industriale della Gran Bretagna.

7Durante le fasi di stasi degli scambi commerciali, i proprietari di piantagioni non dovevano preoccuparsi di sostenere i costi relativi alla sussistenza degli schiavi dal momento che gran parte del loro fabbisogno era prodotto proprio da questi ultimi.

8Un altro argomento sostenuto da Brougham a favore della soppressione della schiavitù faceva leva sulla paura dei proprietari verso possibili rivoluzioni e azioni ribelli tra i loro schiavi. La fine della tratta, secondo il suo discorso, avrebbe praticamente evitato l’eventualità dell’ingresso di numerosi prigionieri africani che avrebbero potuto dimostrare delle tendenze violente e rivoluzionarie.

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