2. Coffeeland. Storia di un impero che domina il mondo

Rispetto a quella di Blackburn, l’analisi offertaci da A. Sedgevick prende a tema la storia del caffè e ripercorre l’intero percorso che lo trasformò in un prodotto di massa coltivato nelle Americhe e distribuito in tutto il mondo, a partire dagli Stati Uniti che ne divennero i maggiori consumatori. Ovviamente, protagoniste non secondarie della sua argomentazione sono ancora le piantagioni, in questo caso, più nello specifico, quelle di El Salvador, luogo in cui ha inizio la storia raccontata nel presente volume e che fa da sfondo a tutta la sua intera opera. La narrazione presentataci da Sedgevick mette in luce il rapporto tra lo stato del Salvador, diventato nel corso del tempo uno dei massimi produttori di caffè dell’America Latina, e gli Stati Uniti, con particolare attenzione a San Francisco, dove i torrefattori del posto elaborarono una nuova tecnica della selezione del caffè consistente nell’assaggio in tazza1. Il protagonista delle vicende qui ripercorse è James Hill, ed è a partire da lui che il racconto ha inizio. Egli è figlio di un dipendente ferroviario di Manchester, la città anche soprannominata Cottonopolis, da cui James Hill andò via per stabilirsi in seguito nei pressi del vulcano Santa Ana in cerca di fortuna.

In effetti tale fortuna James Hill riuscì a costruirla, dal momento che si dimostrò capace di trasformare il paese in una delle monoculture più intensive della storia contemporanea, arrivando a disporre alla data del 1951, anno della sua morte, di diciotto piantagioni dell’estensione di oltre 1200 ettari e caratterizzate da un raccolto annuale di circa 2000 tonnellate di chicchi di caffè.

Le dinamiche dello sfruttamento legato ad una produzione sempre crescente nelle piantagioni del Salvador, qui messe in luce dal nostro autore, non riguardano un sistema schiavistico come quello presente in Brasile o a Cuba, negli anni in cui l’abolizionismo non riuscì a scardinare il regime di schiavitù che invece si perpetuò sino a fine Ottocento. Infatti, la manodopera qui utilizzata era perlopiù rappresentata dai salvadoregni stessi e, sebbene non fossero sottoposti allo status formale di schiavi, erano comunque vittime di un modello di sfruttamento e sottomissione non meno deplorevole di quello presente nelle piantagioni delle altre regioni. Inoltre, anche qui venne a generarsi una retorica di natura razziale: gli indios vennero etichettati da parte delle élite liberali di discendenza europea come arretrati e, soprattutto, responsabili della stagnazione commerciale.

La coltivazione del caffè nel Salvador si affermò solo a metà dell’Ottocento. Prima di allora il paese era perlopiù una terra di sussistenza, caratterizzato dall’assenza di proprietà privata e dalla condivisione dei raccolti delle terre comuni2. In linea di massima non era presente nessuna forma di povertà estrema e nonostante il luogo fosse particolarmente adatto alla coltivazione di prodotti tropicali, non c’erano stati fino ad allora particolari incentivi a produrre merci da destinare ad un mercato internazionale.

Successivamente all’affermazione del caffè, il Salvador3 subì invece un profondo cambiamento e il divario economico tra lavoratori e proprietari delle piantagioni si affermò così duramente da fare della povertà estrema uno dei tratti fondamentali della vita dei salvadoregni.

La ricostruzione elaborata da Sedgevick ci informa dell’origine etiope del caffè. Questa pianta venne commerciata dagli arabi dal XVI al XVII secolo e solo nel 1699 gli olandesi riuscirono a sottrarre la sua coltivazione al controllo arabo, introducendo la pianta nella colonia di Giava. Da lì la sua coltivazione si affermò progressivamente nel corso del Settecento in sud Africa, Suriname, Martinica, Brasile, Giamaica, Cuba, sino ad arrivare a Saint-Domingue che alla fine del XVIII secolo produceva la metà del raccolto annuale di caffè nel mondo.

A distanza di un secolo, negli anni ‘80 dell’Ottocento, il Brasile controllava più della metà del mercato mondiale del caffè. Asia Meridionale e Sud-est Asiatico erano altrettante zone in cui questa produzione era ben radicata e le Repubbliche di Guatemala, Nicaragua e Colombia si erano fortemente orientate verso la coltivazione di questa pianta.

La ricca ricostruzione della storia del caffè che leggiamo nel presente volume allarga il suo sguardo a diverse componenti economiche, storiche e culturali. Oltre a ripercorrere la sua diffusione nelle varie aree geografiche del mondo e a indicare gli interessi dei maggiori produttori della regione Atlantica, Sedgevick descrive i processi e i tempi di coltivazione del caffè, le condizioni climatiche adatte alla sua proliferazione e le diverse varietà che vennero impiegate nel corso del tempo. Nel fare questo evidenzia anche i meccanismi che, da una semplice bevanda di lusso consumata nelle coffehouses londinesi, trasformarono il caffè in un bene di consumo presente persino nelle case e nella vita delle persone più povere. Si registra il passaggio dalla vendita al dettaglio nelle drogherie, alla vendita in serie nelle grandi catene di negozi come la A&P4 Company. Si parla addirittura di una democratizzazione del caffè, avvenuta successivamente al periodo della guerra di secessione, quando la produzione subì una crescita vertiginosa e la conseguenza diretta fu la diminuzione dei prezzi, senza però tralasciare il fatto che, se una tale democratizzazione del consumo fu possibile, essa derivò di certo da un massiccio impiego della schiavitù nelle piantagioni coltivate a caffè.

Questo fatto può essere comprovato dal calo registratosi nella produzione brasiliana a seguito dell’approvazione della Legge d’oro del 1888. La legge firmata dalla principessa Isabella aboliva la schiavitù in Brasile e di fatto questo provocò una crisi della produzione, compensata successivamente dall’arrivo di un milione di lavoratori emigrati italiani che vennero impiegati nelle piantagioni.

Dal punto di vista economico e territoriale il nostro autore annota alcune delle grandi oscillazioni dei prezzi del caffè con le conseguenti crisi che ne derivarono5, mette poi in risalto l’interesse degli Stati Uniti verso l’America Latina, sottolineando come la loro influenza si fece sempre più radicale nell’economia di quei territori e infine, pone l’accento sugli effetti negativi derivanti dalle monocolture e dalla conseguente dipendenza che ne scaturì. Destinare la maggior parte delle terre coltivabili a pochi prodotti finalizzati all’esportazione, lasciava poco spazio alla coltura di beni di sussistenza che dovevano perciò essere necessariamente importati da altre regioni esportatrici. In questa direzione, Frederick Taylor, consulente agricolo californiano, offrì il suo contributo sia nelle Filippine che nel Salvador. Nel primo caso al fine di attuare un programma per l’incremento del raccolto di riso che si attestasse almeno al 25%, nel secondo caso allo scopo di conferire all’agricoltura salvadoregna una base scientifica in grado di contribuire al rimborso del prestito americano di cui a breve parleremo. Ciò che Taylor mise a fuoco nelle Filippine era un problema agricolo e sociale fondamentale: le isole presentavano le giuste caratteristiche per la coltivazione del riso e tuttavia ne importavano immense quantità. Ciò che ne derivava per i filippini era la loro completa dipendenza dal mercato per il proprio sostentamento.

Il Salvador presentava in realtà un problema differente. La preoccupazione principale era legata alla paura di non avere altre fonti di profitto significative diverse dal caffè che potessero garantire il pagamento del prestito americano, qualora i prezzi del caffè avessero registrato un forte calo e generato quindi una possibile crisi. In questo caso l’azione di Taylor fu dunque indirizzata verso la produzione del cotone che in effetti riuscì ad affermarsi abbastanza bene, anche se questo andò a minare la già scarsa produzione alimentare e in particolar modo la coltivazione del mais, principale alimento della popolazione salvadoregna.

Questo e altri fattori, come il fatto che le risorse del ministero dell’Agricoltura fossero state indirizzate verso il cotone e sottratte al caffè, concorsero al crescente sentimento antiamericano che si stava diffondendo in tutto il Centro America.

La causa principale di questo sentimento negativo era l’atteggiamento degli Stati Uniti nel relazionarsi con le regioni del mondo che, di fatto, non governavano formalmente. Gli investimenti statunitensi in America Latina aumentavano progressivamente e più volte gli americani avevano dato vita a prove di forza. Prima della guerra mondiale avevano occupato il Nicaragua e oltre a quest’ultimo, Haiti aveva subito la stessa sorte per ben due volte6. Le multinazionali americane inoltre avevano spesso assunto il controllo economico di alcune nazioni dei Caraibi e i prestiti ora elargiti, a causa della sfavorevole congiuntura economica del primo dopoguerra, aumentavano l’influenza statunitense su questi territori.

L’obiettivo dei prestiti era quello di consolidare il potere degli Stati Uniti in quella parte di emisfero, bloccando le eventuali nuove spinte imperialiste da parte degli europei. La “cura americana”, così chiamata da E.W. Kemmerer e da lui teorizzata, prevedeva l’iniezione di liquidità da indirizzare verso le esportazioni e verso i settori più efficienti. In cambio di questo sostegno finanziario, i governi latinoamericani avrebbero dovuto accettare determinate condizioni, come ad esempio la presenza permanente di un ispettore doganale americano o l’attuarsi di riforme economiche sostanziali.

In questo contesto nascevano considerazioni che tendevano a scorgere negli Stati Uniti un approccio rapace e persino imperialista. È questo il caso di Samuel G. Inman che, in un articolo intitolato Imperialistic America, individuava nei prestiti concessi la speranza di enormi vantaggi per i capitalisti americani.

Il ruolo dell’America Latina nell’esportazione di caffè rimase fondamentale per tutto il Novecento e assunse una grande rilevanza anche dopo la fine della seconda guerra mondiale. Proprio nel dopoguerra, il caffè aveva assunto una nuova importanza nella giornata lavorativa e la pausa caffè si radicalizzò così tanto da diventare imprescindibile per qualunque lavoratore americano; questo anche per i benefici registrati da un sondaggio condotto presso un migliaio di imprese, da cui emergeva che la pausa caffè all’interno della giornata lavorativa provocava minore affaticamento, innalzamento del morale e aumento della produttività.

Questi fattori diedero l’impulso ad un vivace dibattito sul valore della pausa caffè e sulla possibilità o meno di retribuirla, considerandola parte effettiva della giornata lavorativa, dati i vantaggi che scaturivano dal consumo della bevanda.

D’altra parte, se l’attenzione negli Stati Uniti era rivolto all’impiego del caffè, in America Latina oggetto di riflessione era la produzione di questo bene e il mancato processo di industrializzazione a cui adesso si tentava di dare impulso.

Ad occuparsi del problema per conto della Commissione economica per l’America Latina era l’argentino R. Prebisch; la critica da lui sostenuta evidenziava la mancata spinta all’industrializzazione, derivata dal commercio in massa di prodotti agricoli per l’esportazione verso i grandi centri industriali, in cambio di beni che l’America Latina non era riuscita a produrre internamente. Il compito di Prebisch era allora quello di trovare un modo per rivendicare questo progresso e migliorare le condizioni di vita delle masse.

Secondo il suo piano le esportazioni dovevano continuare a crescere al fine di raccogliere il capitale necessario per investire nella nuova industrializzazione.

I risultati dello studio effettuato per mettere in atto il progetto sopra menzionato tendevano a misurare la produzione di caffè più in termini di costi fisici che in termini di denaro, cercando di riprodurre una stima del rapporto tra lavoro necessario alla produzione del caffè e lavoro derivato dal suo consumo.

Gli esiti della ricerca rilevarono che il lavoro impiegato nella produzione creava una quantità di lavoro venti volte superiore negli Stati Uniti; mentre dal punto di vista monetario, la paga riservata ai salvadoregni equivaleva a 6 centesimi l’ora, negli Stati Uniti la stessa ora lavorativa veniva retribuita con un salario minimo di 75 centesimi.

Ancora una volta, il divario economico e sociale tra paese produttore e paese consumatore si mostrava insormontabile.

A pagarne le spese erano sempre e comunque le masse lavoratrici.

1In precedenza per la selezione del caffè si attribuiva maggiore valore all’aspetto dei chicchi piuttosto che al loro sapore una volta macinati. Nei fatti questo metodo di valutazione era molto utile, in primo luogo perché sbrigativo, in secondo luogo perché garantiva ai piantatori di riuscire a esportare una grossa quantità di caffè considerato di buona qualità, nonostante durante il viaggio i fattori che potevano minarne il sapore fossero parecchi.

2Il processo di privatizzazione delle terre fu abbastanza lungo e soprattutto non seguì un progresso lineare. Ciononostante, una volta completato, un quarto dei terreni del Salvador passò dall’essere comune all’essere privato. Nel 1882 il sistema della proprietà comunale delle terre fu abolito completamente da un decreto legislativo redatto da un legislatore di Santa Ana.

3Il paese ottenne l’indipendenza dalla Spagna nel 1821.

4Great Atlantic & Pacific Tea Company.

5Una prima crisi si realizzò nel momento in cui la produzione di caffè brasiliana, entrata in calo dopo l’abolizione della schiavitù nel 1888, registrò un aumento della produzione grazie al lavoro dei nuovi emigrati italiani. Un decennio dopo questa produzione fu così elevata da superare la capacità di assorbimento del mercato internazionale. L’eccessiva offerta rispetto alla minore domanda generò un crollo dei prezzi.

6L’economia della Repubblica dominicana era sotto il controllo degli americani dopo l’insolvenza di un prestito.

  1. Testi a confronto

Dal resoconto emerso dalla lettura dei due volumi di cui abbiamo trattato sopra, una prima riflessione scaturita riguarda di certo la condizione dello schiavo africano e la considerazione del relativo valore che di esso costruirono i regimi schiavisti, di contro ad una valutazione per certi versi più positiva riservata agli indigeni delle terre colonizzate.

Nello specifico, Blackburn in Crogiolo Americano ci mette al corrente che nella logica della schiavitù, la deportazione presso luoghi lontani e diversi dalla terra di origine, rappresentava parte integrante del processo di sottomissione, nella misura in cui essere lontani da casa sanciva concretamente l’impossibilità di un’emancipazione che permettesse eventualmente di fare ritorno nella propria terra natia. Anche se in certi casi la manomissione1 di uno schiavo era permessa, questa richiedeva il pagamento di una somma di denaro molto elevata e difficile da accumulare date le condizioni lavorative cui il prigioniero era costretto a sottostare. Inoltre, il numero sterminato di esseri umani trasportati nell’Atlantico dalle navi negriere, garantiva un flusso ininterrotto di manodopera sempre disponibile e questa condizione, lungi dal rappresentare nei primi periodi un motivo di indignazione, rassicurava i proprietari delle piantagioni che potevano, date le circostanze, concertare sistemi di oppressione e ritmi di lavoro estenuanti e insostenibili.

Se facciamo un salto indietro giungendo sino al 1542, possiamo dimostrare come l’attenzione rivolta ad un certo punto alle condizioni degli indigeni venne totalmente negata alle simili, se non peggiori, condizioni dei prigionieri africani dello stesso periodo.

Quando Bartolomé de Las Casas pubblicò l’opera in seguito largamente tradotta e ristampata dal titolo Brevissima relazione della distruzione delle Indie, la sua preoccupazione principale si rivolgeva verso le condizioni degli indios soggetti al massacro, insieme all’oppressione dei coloni spagnoli che su di loro esercitavano eccessi deprecabili, responsabili della morte di larga parte di quella popolazione. Tuttavia, nessuna attenzione di questo genere veniva indirizzata ai prigionieri africani. Anzi, proprio il freno posto allo sfruttamento della manodopera india, diede l’impulso al crescente impiego degli africani che sarebbero andati a compensare l’assenza di quella forza lavoro.

A distanza di due secoli Thomas Jefferson, nel suo Notes on the State of Virginia, dichiarava la schiavitù un’istituzione «altamente deplorevole». Questa affermazione non era certo frutto di un sentimento di empatia rispetto alla condizione dei prigionieri africani. In questo testo egli descriveva i nativi americani come uomini e donne profondamente capaci di migliorare e progredire; viceversa i discendenti africani rappresentavano tutt’altra storia. Essi erano limitati intellettualmente, sgradevoli e forieri di una profonda minaccia morale, politica e fisica di cui diffidare. Da questo ne derivava il progetto di una «Repubblica dell’uomo bianco» che avrebbe dovuto avere tra i suoi obiettivi quello di riportare indietro gli africani e liberare il suolo americano dalla loro presenza.

Dalle premesse appena illustrate non ne seguì comunque un trattamento più desiderabile per quanto riguarda le condizioni di lavoro applicate agli indigeni che lavorarono nelle piantagioni dei maggiori produttori di beni venduti e scambiati nel commercio Atlantico.

In un paragrafo intitolato «La piantagione della fame» del suo libro Coffeeland, Sedgevick mette in luce un meccanismo controverso impiegato per assicurarsi una maggiore produttività nel lavoro consistente nella produzione della fame. Citando le parole del diplomatico Maurice Duke: «il cibo dell’uomo viene trattenuto e questo infonde rapidamente l’attività nelle sue membra riluttanti».

Una simile pratica venne messa in atto anche nelle piantagioni di J. Hill dove i salari si componevano di denaro e di razioni e quando c’era bisogno di un lavoro urgente da svolgere, l’incentivo per attirare la gente era proprio il cibo e non il denaro. In questa circostanza, il modo efficace per garantirsi lo svolgimento di una maggiore quantità di lavoro era quella di distribuire la razione alle prime luci dell’alba, in modo tale da obbligare le persone ad anticipare di molte ore l’inizio della giornata lavorativa e aumentare di gran lunga la quantità di prestazione dispensata. La razione di cibo distribuita come parte del salario era già abbastanza iniqua, arrivare in ritardo nella piantagione significava dover rinunciare anche a quella parte di dose di cibo in più.

La strategia usata da Hill per garantirsi migliori prestazioni da parte dei suoi lavoratori, poggiava su una logica alquanto cinica e calcolatrice. Se normalmente una migliore nutrizione avrebbe contribuito al benessere fisico della manodopera da lui impiegata, il metodo della fame faceva leva sui loro insopprimibili bisogni primari che li avrebbero incentivati a lavorare ancora più duramente, al fine di rispondere ad una esigenza fisiologica insopprimibile.

Effettivamente, la logica della creazione della fame è il fondamento di tutte le economie capitaliste a detta di Sedgevick ed è strettamente legata alla privatizzazione delle terre: una volta che le risorse comuni sono state trasformate in proprietà privata, l’unico modo per procurarsi da mangiare è offrire il proprio lavoro in cambio di un salario, non potendo più contare sul rendimento delle risorse comuni. Per mezzo di questo meccanismo, attraverso il quale la prestazione lavorativa diventa quasi l’unica possibilità per sostentarsi, si è reso possibile l’intenso sfruttamento realizzatosi di fatto nella produzione di beni di lusso destinati ai mercati dei paesi consumatori.

Il rapporto tra schiavitù e capitalismo viene affrontato anche da Blackburn e mette in evidenza sia i contributi apportati dalla schiavitù all’avvio del capitalismo, sia le contraddizioni presentate da questo sistema e gli aspetti che ne facevano, per certi versi, un’istituzione incompatibile con la stessa logica capitalista. Il problema di fondo di questa incompatibilità si registrava nel fatto che la manodopera schiavizzata, non percependo una retribuzione, ed essendo in grado di nutrirsi attraverso i propri mezzi2, non rappresentava una classe di lavoratori salariati in grado di contribuire all’accrescimento della domanda di beni di consumo. D’altra parte una massa di lavoratori salariati avrebbe invece ampliato le dimensioni del mercato sia nella madrepatria che nelle colonie. Max Weber addirittura considerava l’istituzione come un limite alla produttività e le stesse scienze sociali classiche hanno sostenuto l’idea dell’incompatibilità di cui abbiamo appena parlato. C’è poi da aggiungere un fattore molto importante riguardo all’aspetto educativo relativo alla manodopera schiava: questa massiccia classe di lavoratori non era in possesso di un’istruzione di base che li rendesse in grado di leggere e scrivere, al massimo i padroni incoraggiavano i propri schiavi ad imparare un mestiere quale quello dell’artigiano, ma questa mancata alfabetizzazione ritardò in parte il progresso tecnologico e da molti l’intera istituzione della schiavitù venne considerata un ostacolo al processo di accumulazione del capitale. Altro fattore non trascurabile è inoltre l’inefficienza del lavoro a squadre e dei gruppi di schiavi rispetto alle coltivazioni generiche, ai trasporti e alla produzione manifatturiera; questo genere di lavoro a squadre risultava molto più utile e redditizio per l’agricoltura nelle piantagioni o per l’estrazione mineraria.

Eppure, nonostante la natura di questi ostacoli, Blackburn ci tiene a precisare che questo non impedì comunque all’istituzione di rappresentare una fonte preziosissima per l’ascesa del capitalismo atlantico. Partiamo dal fatto che molte attività come il taglio della canna da zucchero o la raccolta del cotone si mostravano riluttanti alla meccanizzazione e nel loro caso, veri progressi in questo senso si ebbero solo nel XX secolo. In secondo luogo al crescere della domanda e al presentarsi della necessità di una maggiore produzione, i piantatori potevano contare su una quantità di forza lavoro maggiore rispetto a quella di cui avrebbero disposto in condizioni di lavoro regolamentato, fondamentalmente perché all’interno delle piantagioni a lavorare erano, oltre a uomini e donne in età consona, anche anziani e bambini. Nel caso delle donne in gravidanza, queste potevano essere costrette a lavorare fino al nono mese di gestazione, condizione che di fatto causò una generale riduzione della fertilità tra la popolazione schiava. Per non parlare del fatto che lo sfruttamento intensivo implicava orari lavorativi insostenibili e tuttavia garantiti dalla minaccia di terribili castighi.

I vantaggi offerti da questo sistema possono essere in parte dimostrati dalla situazione venutasi a creare a seguito dell’emancipazione. Molti dei piantatori impiegarono una nuova manodopera rappresentata da mezzadri non salariati o da braccianti occasionali con paghe bassissime.

Possiamo pertanto concludere che se ad un certo punto la schiavitù sembrò mostrarsi incompatibile con il sistema economico che via via si stava affermando, è pur vero che l’istituzione schiavista rappresentò un grande vantaggio per la disponibilità di materie prime e beni di lusso che il nuovo sistema chiedeva in misura sempre maggiore.

Non dobbiamo poi dimenticare che tendenzialmente la popolazione delle regioni destinate alle piantagioni, dirette da colonizzatori o proprietari del posto, soggiaceva spesso all’imposizione della madrepatria o delle varie compagnie commerciali di cui subiva l’influenza. Proprio Sedgevick ci ricorda che intorno agli anni '40 dell’Ottocento gli olandesi obbligarono con la coercizione ogni famiglia dell’isola di Giava a coltivare un certo numero di alberi di caffè. Il prodotto raccolto veniva ovviamente comprato dall’amministrazione coloniale olandese ad un costo molto inferiore rispetto a quello fissato dal mercato.

Il divario tra paesi consumatori e paesi produttori in ogni caso non sembrò mai sanarsi o almeno non del tutto. Le necessità e le richieste dei primi fecero sempre da padrone rispetto alle naturali esigenze dei secondi.

Sarebbe bello poter affermare che la situazione economica e sociale attuale sia totalmente diversa e lontana dalla povertà che il capitalismo con le sue richieste ha generato durante l’Ottocento. Tuttavia dobbiamo riconoscere che non è così e che ancora oggi, molti dei paesi produttori che immettono nel mercato i beni di consumo al momento più richiesti, subiscono ancora povertà e disordini sociali. Emblematica è, ad esempio, la testimonianza offerta dalla serie documentaristica americana intitolata Rotten e prodotta da Zero Point Zero nel gennaio del 2018 sulla crisi idrica cilena che è diretta conseguenza del commercio dell’avocado, l’“oro verde”.

L’accesso all’acqua in Cile è riservato quasi interamente alla coltivazione dell’avocado a danno della popolazione civile. Nel 1981 l’acqua è stata in effetti privatizzata sotto l’avallo di Augusto Pinochet e sebbene tutti possano attualmente chiedere di avere accesso alle risorse idriche, queste sono in gran parte controllate da ricchi speculatori.

La maggiore richiesta a metà degli anni '90 del Novecento venne registrata soprattutto in alcune città come Ligua e Petorca, chiaro segno che la produzione di avocado verso il Nord America stava subendo un aumento progressivo. Conseguenza diretta fu un ulteriore consumo di acqua destinato alle piantagioni di avocado e sottratto al bisogno della popolazione3.

I due principali fiumi della provincia di Petorca si sono prosciugati nel 1997 e nel 2004. La popolazione locale ha dovuto sopperire alla mancanza di acqua attraverso la costruzione di pozzi.

Il panorama che si delinea oggi è quello di una sempre crescente povertà dei piccoli produttori che non possedendo più nemmeno la capacità di sostentarsi devono rassegnarsi alla vendita delle proprie terre a favore dei grandi proprietari di piantagioni.

Bibliografia

Blackburn R., 2021, Il crogiolo americano, schiavitù, emancipazione e diritti umani. Einaudi

Sedgevick A., 2021, Coffeeland. Storia di un impero che domina il mondo, Einaudi

1Atto di emancipazione dello schiavo concessa dal proprietario.

2Generalmente gli schiavi impiegati nelle piantagioni ricevevano degli appezzamenti di terreno attraverso cui coltivare personalmente il cibo necessario al proprio sostentamento.

3Un’ inchiesta del governo cileno ha scoperta una dozzina di canali segreti che deviavano illegalmente l’acqua dei fiumi verso le grandi piantagioni.

Questo sito memorizza piccoli file (cookie) sul tuo dispositivo. I cookie sono normalmente utilizzati per consentire il corretto funzionamento del sito (cookie tecnici), per generare report sull’utilizzo della navigazione (cookie di statistica) e per pubblicizzare adeguatamente i nostri servizi/prodotti (cookie di profilazione). Per utilizzare i cookie tecnici non è necessario il tuo consenso, mentre hai il diritto di scegliere se abilitare o meno i cookie statistici e di profilazioneAbilitando questi cookie, ci aiuti a offrirti un’esperienza migliore.

On this website we use first or third-party tools that store small files (cookie) on your device. Cookies are normally used to allow the site to run properly (technical cookies), to generate navigation usage reports (statistics cookies) and to suitable advertise our services/products (profiling cookies). We can directly use technical cookies, but you have the right to choose whether or not to enable statistical and profiling cookiesEnabling these cookies, you help us to offer you a better experience.