SIMONE WEIL: SVILUPPI E TENSIONI DI UN PACIFISMO VISSUTO
di Martina Savoca
«Ho la certezza che [questa verità della risposta al dolore], se mai mi sarà concessa, lo sarà solo al momento in cui io stessa sarò fisicamente nel dolore e in una forma estrema della sofferenza presente».
-Simone Weil
Prima parte
Il primo pacifismo di Simone Weil e la sua fase operaista
«Il peggior tradimento possibile, in qualunque circostanza, consiste sempre nell’accettare di sottostare a questo apparato e di calpestare in sé stessi e negli altri, per servirlo, tutti i valori umani».1
Il sopraccitato «apparato» di cui parla Simone Weil nelle battute finali del suo scritto intitolato Riflessioni sulla guerra, pubblicato nel novembre del 1933 sulla rivista La Critique sociale2, è un qualunque apparato amministrativo, poliziesco e militare proprio di un qualsiasi stato che in lotta con un altro costringa i suoi cittadini a mettersi al suo servizio, portandoli ad accettare come naturale conseguenza il tragico destino di essere mandati a morire e di sottomettersi a quello che Simone Weil chiamerà “Impero della forza”.3
Siamo in Francia e Simone Weil pubblica questo articolo nello stesso anno in cui Adolf Hitler sale al potere in Germania; in un clima di tensione comincia a profilarsi il timore per un nuovo possibile conflitto internazionale ed è proprio attraverso alcuni degli scritti che vanno dal 1933 al 1943 che la nostra filosofa riaffermerà a più riprese, e almeno sino ad un certo punto della sua riflessione, le sue tesi pacifiste.
In primo luogo il suo pensiero appare tanto più profondamente autentico e degno di valore quanto più si rileva che le riflessioni intellettuali da lei teorizzate nascono da un’esperienza biografica intensa che le ha permesso di elaborare delle posizioni morali di cui pare abbia vissuto tutto il sentimento, le tensioni e le contraddizioni interne, facendoci destinatari di un percorso e di un’evoluzione spirituale e intellettuale ininterrotti in cui vita e pensiero si intrecciano costantemente.
Presentiamo, dunque, la vita di Simone Weil e le tappe decisive della sua esistenza, quelle che più di tutte ne hanno influenzato il pensiero e che ci aiutano a conoscere la personalità di questa giovane donna, da sempre destinata a percepire in sé stessa il peso dell’oppressione e della sofferenza proprie della condizione umana.
Simone Weil nasce nel febbraio del 1909 a Parigi e nei primi anni della sua infanzia, nonché gli anni corrispondenti alla Prima Guerra Mondiale, si trasferisce più volte insieme alla famiglia: il fratello Andrè, la madre Selma e il padre Bernard, per seguire quest’ultimo mobilitato in veste di medico prima a Neufchateaux, poi Chartres e successivamente Laval. Diversi anni dopo, fra il 1935 e il 1936, Simone entrerà al liceo Henri IV, dove farà la conoscenza di Alain4, per preparare il concorso dell’Ecole Normale Supérieure. È in questa sua prima fase della vita che comincerà a militare nelle organizzazioni politiche, a scrivere nelle riviste a favore della pace e ad avvicinarsi ai gruppi della sinistra anarchica; inoltre, proprio durante l’esperienza del liceo, conoscerà quei compagni con cui condividerà gli ideali di pace e insieme ai quali fonderà poi il giornale «Volontè de Paix».
In seguito il suo interesse per la condizione operaia si farà sempre più vivo e nel periodo in cui insegnerà a Le Puy, dopo essere stata ammessa all’agrègation di filosofia nel 1931, fonderà un comitato intersindacale.
A questo proposito possiamo affermare che il primo pacifismo di Simone Weil, almeno fino al 1936, anno che segna l’inizio della guerra civile spagnola, è fortemente ancorato alle prospettive del movimento operaio e negli anni successivi il pensiero sulla condizione operaia di Simone Weil, che sino ad un certo punto aveva sognato e idealizzato la rivoluzione sociale, subirà un’evoluzione che, sebbene non comporterà il suo distacco dagli ambienti sindacali, la porterà comunque ad abbandonare le speranze nel reale successo di una rivoluzione proletaria.
I motivi di tale disillusione sono ben descritti in Riflessioni sulla guerra, dove troviamo la seguente espressione: «la guerra rivoluzionaria è la tomba della rivoluzione»5; le ragioni di tale convinzione risiedono nel fatto che alla stregua di una qualsiasi guerra tra stati, anche la guerra rivoluzionaria implica una profonda militarizzazione dello stato e della vita civile e pertanto, sia nel caso della guerra fra stati che nel caso della guerra rivoluzionaria, il rischio che si corre è sempre quello di un’ involuzione totalitaria con la conseguente oppressione e sofferenza che ne derivano. D’altro canto lei stessa aggiunge che una simile militarizzazione è in un certo qual modo inevitabile poiché, se la rivoluzione spera di avere successo ha bisogno di organizzare militarmente una propria difesa, in caso contrario è destinata al fallimento.
Ad ogni modo la condizione proletaria rimarrà ancora al centro delle sue preoccupazioni e nel 1934 chiederà un congedo non retribuito dall’insegnamento della durata di un anno, allo scopo di sperimentare in prima persona il lavoro all’interno della fabbrica; è proprio a questa nuova esperienza che si lega particolarmente il pacifismo di questo primo periodo, durante il quale Simone Weil potrà maturare l’idea secondo la quale la guerra si rivela essere un male ancora più riprovevole nella misura in cui coinvolge più duramente proprio coloro i quali dispongono di minori mezzi e possibilità per difendersi.
Già in una lettera scritta alla sua amica Albertine Thèvenon all’epoca dell’esperienza in fabbrica, Simone Weil testimoniava una condizione da lei definita di schiavitù, all’interno della quale l’individuo, nella condizione di servo, si trovava asservito principalmente a due fattori: la velocità e gli ordini. In questa stessa lettera troviamo un riferimento alla violazione della dignità dell’individuo, piegato alla costrizione di dover subire i comandi e le umiliazioni dei propri capi, senza mai smettere di reiterare le operazioni meccaniche delle mansioni a lui affidate, proprie del lavoro in fabbrica. Questo stesso riferimento alla violazione della dignità personale lo ritroviamo anche in un progetto di articolo del 1936, dal titolo Risposta ad una domanda di Alain, in cui Weil, nel riconfermare la sua opposizione alla guerra, scrive:
il più grande paradosso della vita moderna è il fatto che non solo nella vita civile si calpesta la dignità personale di coloro che un giorno verranno mandati a morire per la dignità nazionale, ma che proprio quando la loro vita è così sacrificata per difendere l’onore comune, vengono esposti a umiliazioni assai più dure che in precedenza.
E ancora sul finire dell’articolo:
queste guerre in cui gli schiavi sono mandati a morire in nome di una dignità che non viene mai loro accordata, queste stesse guerre costituiscono l’ingranaggio essenziale del meccanismo dell’oppressione.
L’esperienza militare nella Spagna in guerra
Se la decisione di trascorrere un anno della propria vita nella condizione che Weil stessa ha definito di «costrizione brutale e quotidiana» colpisce, allora è bene rendere noto che l’esperienza della fabbrica non è l’unico espediente per mezzo del quale Simone Weil si immola nel tentativo di subire personalmente la condizione umana.
Quello che presenteremo adesso è sicuramente uno dei momenti più intensi della vita di Simone Weil attraverso il quale è possibile rintracciare degli aspetti interessanti del pacifismo di quegli anni. Il 19 luglio del 1936 la Spagna sprofonda nella guerra civile a seguito del golpe reazionario guidato dal generale Francisco Franco. La causa è la reazione della destra conservatrice e aristocratica spagnola al governo legittimo del Fronte Popolare, vincitore alle elezioni del febbraio precedente. Nel clima di tensioni che si profila, Simone Weil non manca di ribadire ancora una volta la sua contrarietà alla possibilità di un intervento militare da parte della Francia che possa sfociare in un conflitto fra stati, perciò in un progetto d’articolo del 1936 dal titolo Non-intervento generalizzato, in una maniera che potrebbe forse lasciarci leggermente turbati, Simone Weil dichiara:
Il fatto è che mi rifiuto di sacrificare deliberatamente la pace per un punto di vista personale, anche quando si tratta di salvare un popolo rivoluzionario minacciato di sterminio.
È chiaro che a questo punto della sua vita le sue convinzioni la portano a individuare nella guerra il male assoluto, un male per cui è disposta a sacrificare tutto, anche un popolo minacciato di sterminio, pur di sbarrare la strada e scongiurarne l’esito. Tuttavia, se dal punto di vista politico l’intervento della Francia è per lei impensabile, sul piano individuale le cose stanno diversamente.
Nei suoi Scritti storici e politici considera la guerra civile spagnola non come l’offensiva di una nazione a danno di un’altra, ma come il risultato di un’aggressione da parte di una casta militare nei confronti di un grande popolo. Nel fare questa considerazione immaginava già la dolorosa sorte di chi non avrebbe potuto sfuggire al conflitto civile e alle sue più atroci sofferenze.
È così che a meno di un mese dall’inizio della lotta armata, l’8 agosto del 1936, Simone Weil passa la frontiera intenzionata ad arruolarsi come soldato. Tale decisione ci pone inevitabilmente un interrogativo: come conciliare il fermo pacifismo della Weil sul piano internazionale con la decisione di assumersi la responsabilità individuale di rendersi eventualmente colpevole della morte di altri esseri umani?
Forse possiamo provare a dare una prima risposta partendo dal senso di coerenza che Simone Weil manifesta nel maturare la scelta di arruolarsi. Nella lettera che scrive a Georges Bernanos, probabilmente nel 1938 quando la sua esperienza in Spagna è già terminata, Simone Weil confessa che ciò che da sempre le ha più fatto orrore nella guerra è la condizione di coloro che stanno nelle retrovie, e quando lei stessa si è resa consapevole di non riuscire a non partecipare anche solo moralmente alla guerra, sperando quindi nella vittoria di una fazione e nella sconfitta di un’altra, allora ha rimproverato a se stessa di trovarsi anche lei, in un certo qual modo, nella retrovia e ha dunque deciso di partire.
Le successive motivazioni che a seguito di una grave ustione, e quindi di un periodo di congedo dalla guerra civile, la indurranno a non prendere più parte alla lotta armata sono anche queste ben espresse nelle parole indirizzate a Georges Bernanos a cui spiegherà che le brutalità di cui fu testimone in Spagna, brutalità commesse dai suoi stessi compagni, la convinsero nella seguente idea:
si parte volontari con idee di sacrificio, e si finisce in una guerra che somiglia ad una guerra di mercenari, con in più molte crudeltà e in meno il senso dei riguardi dovuti al nemico.
In queste parole troviamo la chiave di accesso per comprendere il giudizio di Simone Weil relativamente al concetto di violenza.
L’impero della Forza
Nei suoi scritti sembra che i concetti di forza e di violenza vengano utilizzati indifferentemente per esprimere uno stesso significato6. Precisamente, nel dare una definizione di violenza la Weil si esprime nei seguenti termini:
la forza è ciò che rende cosa chiunque le sia sottomesso. Quando viene esercitata fino in fondo, rende l’uomo cosa nel senso più letterale poiché ne fa un cadavere.
La violenza, o forza, qui descritta da Simone Weil è all’origine di un processo di reificazione che tende a trasformare l’uomo e a farne una vera e propria cosa7, e tale processo si realizza non solo nell’atto capitale dell’omicidio, che si traduce quindi nell’effettiva privazione di vita a danno di un uomo ridotto a mero cadavere, ma anche nella condizione stessa del solo poter essere causa della morte di un altro individuo, in ogni momento. Infatti, da questo potere di rendere cosa un individuo, avendo la possibilità di privarlo della sua esistenza, deriva un ulteriore potere, ancor più contingente, che è quello di «render cosa un essere che rimane vivente»8. In altre parole, una volta che abbiamo il potere di annientarlo la sua esistenza si pietrifica e dipende essenzialmente dalla nostra azione.
Ma è bene precisare che tale reificazione non si abbatte solo su chi subisce la violenza, ma anche su chi la esercita, dal momento che anche quando si crede di padroneggiare la forza, questa in realtà si pone al di sopra di noi come puro meccanismo, come puro concatenamento di condizioni che sfugge a qualsiasi possesso e a qualsiasi controllo. Tale condizione cui sono destinati tutti coloro i quali sono toccati9 dalla violenza è inoltre legata a quella che Weil chiama sventura, definita da lei come la subordinazione dell’animo umano alla forza che peraltro provoca una distruzione della personalità. Dinanzi a tale scenario il dovere morale da lei prescritto è quello di un deciso rifiuto di ogni alleanza con l’impero della forza, anche se ammetterà che uno stato perfetto e assoluto di tale rifiuto è possibile solo in uno stato di purezza tale da essere condizione di un contatto con Dio. Purtuttavia, se una così perfetta purezza ci è preclusa, possiamo almeno impegnarci nello sforzo di liberarci dal desiderio di uccidere e il presupposto per riuscirci è quello di superare la nostra paura di morire; e infatti, nell’istante in cui uccidiamo, non stiamo facendo altro che sottrarci alla morte che simultaneamente infliggiamo proprio a colui che avrebbe potuto diversamente infliggerla a noi.
Se la realtà è questa, solo per quanti avranno accettato la possibilità della morte, dandole dunque il loro totale consenso, sarà permesso di percorrere il sentiero verso la liberazione, ed è in questa prospettiva che potranno dunque «guardare l’altro come uno che esiste e che non vuole morire»10; nelle parole di Simone Weil, come uno che ha «un diritto eguale al nostro di dire “io”»11, estinguendo così il nostro desiderio di sopprimerlo. Simone Weil però ci tiene a precisare che fuggire la lotta, con il pretesto di rifiutare la violenza, non sarebbe altro che vigliaccheria ed è per questo che individua l’autentico coraggio in coloro i quali, non cedendo all’impero della violenza, rifiutano concretamente di prestargli qualsiasi collaborazione. Lei stessa proverà forse a rimanere fedele alle sue posizioni teoriche e difatti, attraverso una testimonianza lasciata da Simone Pètrement, sua cara amica che ebbe modo di intrattenersi con lei al suo rientro dalla Spagna, veniamo a conoscenza della sua comica contentezza nell’essere così miope da non rischiare di uccidere nessuno pur sparandogli contro.
In definitiva pensiamo che la tensione così urgente, che convincerà Simone Weil della necessità di partire verso la Spagna in guerra, sarà il peso per lei insostenibile di rimanere lontana da un dolore che dall’altra parte dei Pirenei affliggeva persone innocenti, costrette a sopperire sotto i colpi di un’aggressione da lei considerata ingiusta sotto ogni aspetto.
Malgrado tutte queste considerazioni, nel già citato testo Lettera a Georges Bernanos, Simone Weil riterrà essenziale l’atteggiamento nei confronti dell’omicidio, ancor più delle cifre delle vittime mietute dal conflitto e delle violenze commesse da quanti, assorbiti dall’impero della forza, hanno ceduto per paura della morte. È ancora lei che denuncerà di non aver visto nessuno, nemmeno in confidenza, esprimere repulsione, disgusto o perlomeno disapprovazione per il sangue versato durante la sua permanenza in Spagna, e nel manifestare il disappunto per tale atteggiamento non manca di offrirci un’analisi della condizione che trascina gli uomini in tale indifferenza morale.
In primo luogo tale indifferenza si realizza in una situazione in cui è possibile uccidere ed esercitare violenza senza il rischio di essere né condannati né biasimati e per di più in un clima in cui si è incoraggiati, nell’atto di uccidere, da sorrisi che «da tutte le parti spingono a farlo».
Ma ciò che spaventa di più in questa circostanza è il senso di fascinazione e l’ebbrezza a cui è quasi impossibile resistere e che coinvolge indistintamente tutti quanti ne abbiano un qualche contatto. Lei stessa confesserà di essersi sentita in qualche momento avvolta da tale sensazione e di aver in certi momenti provato orrore, non tanto per le brutalità di cui fu testimone, ma più per l’aver sentito in se stessa la possibilità di poterle praticare.
1Sulla guerra, trad. it. a cura di Donatella Zazzi, il Saggiatore, Milano 2017, p. 47
2La Critique sociale era la rivista di Boris Souvarine a cui Simone Weil aveva collaborato; pur non aderendo al Circolo pubblicherà alcuni articoli e recensioni di libri nei numeri 9, 10 e 11.
3La source greque, Gallimard, Parigi 1953 (trad. it. Parziale in La Grecia e le intuizioni precristiane, Borla, Torino 1967), p. 40
4Alain era lo pseudonimo adottato per scrivere da un professore chiamato Chartier.
5Sulla guerra, trad. it. a cura di Donatella Zazzi, il Saggiatore, Milano 2017, p. 44
6Simone Weil. L’esigenza della non-violenza, Jean- Marie Muller, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1994, pp. 104-116
7Corsivo mio
8La source greque, Gallimard, Parigi 1953 (trad. it. Parziale in La Grecia e le intuizioni precristiane, Borla, Torino 1967), pp. 12-13
9«Così la violenza annienta coloro che tocca». Ivi, p. 26
10Jean-Marie Muller, Simone Weil. L’Esigenza della Nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1994, cit. p. 26
11Quaderni, Adelphi, Milano; II, 1985