Elina Duni - The lost ships

di Giuseppe Di Bella

"Bella ci dormi sui cuscini

Ea ieu qua fore, ea ieu qua fore

Bella ci dormi sui cuscini

Ea ieu qua fore, minu suspiri"

Una serenata pugliese tradizionale apre il disco di Elina Duni, cantante jazz, compositrice, polistrumentista e poliglotta, albanese di Tirana, che oggi vive in Svizzera e ha iniziato ormai nel 2008 il suo percorso discografico che la conduce a oggi e noi. 

Il suono caldo e dalla profonda texture analogica, tessuto come sempre dall'invisibile mano di Manfred Eicher e portato a noi dalla catena dei preamplificatori MADI che sono parte del processo di costruzione fonografica del suono in casa ECM, ci permette di entrare con pulizia e in stato di grazia in una dimensione sonora alta in grado di essere già nel fluido nuovo linguaggio musicale, in cui la forma colta e il popolare, la musica d'arte per spartito e l'improvvisazione, la canzone e le strutture complesse della musica contemporanea si espandono private dei confini di identità e conflitto. In un certo senso fin da "Bella ci dormi" , che offre questo moto danzante da world ballad, ci sembra chiaro che il manifesto sia teso e lucido: aprire varchi cognitivi ed emotivi che catalizzino l'ascolto in un auto-ascolto intimo, vocato alla memoria dell'Animus junghiano, che in questa perdita di definizione ritrova una libertà e una redenzione sul piano umano e riflessivo. 

La chitarra di Rob Luft, un suono smooth e brillante di Gibson a semicassa, è il cristallo che inizia un procedimento di incantamento per suoni armonici , loop e bagliori cordali, su cui il suono del piano e l'ingresso graduale dei fiati ci conducono dentro Numb, dopo A Brighton (british ballad piovosa e limpida) e dopo I'm a foool to want you (classical standard impeccabile e scuro), direttamente in quel sound paesaggistico, aperto e senza frontiere, di un racconto che partendo dal dramma degli incendi boschivi, della distruzione del nostro mondo del respiro, attiva una lunga cavalcata, un piano sequenza che risolve in arpeggi e ampie campiture con estensioni accordali di nona e un voicing di modo maggiore con uso sapiente del pedale di sus quarta, dove la voce di Elina nel suo registro più comodo, è verità e maieutica. Maieutica perchè ha la capacità tutta femminile di persuadere e piegare la materia con la delicatezza, e ci spiega dove la radice fragile e potente di questa evocazione conduce. Un timbro della morbidezza e dell'eleganza che risolve sempre con una pienezza armonica mai abusando della maschera, in leggerissime acciacature e note di appoggio sui finali di frase, sui rari momenti di "recitativo" con raffinata padronanza del soffiato, del sussurro. Elina richiama nella sua voce i modelli di un novecento jazzstico nobile, ma senza far risuonare mai in modo esplicito i riferimenti. Qualcuno potrà infrasentire chi vuole, da Norma Winstone, a Lady Day passando per Joni Mitchell, o voci più dolci del jazz francese e americano anche recentissimo, ma in realtà la voce di Elina ha uno spettro di frequenze così intimo e personale, da avere rifuso ogni influenza nel corpo solido del proprio tono.

Al centro (tamatico) di questo disco si trova Lost Ships, la title track, una lettura in chiave atemporale di un dramma tutto nostro, e una composizione musicalmente argomentante, dallo sviluppo evolutivo. Si parla di navi perdute, di traversate disperate, e sappiamo benissimo anche senza nominarlo di quale dramma parliamo, e dopo un'introduzione pianistica di Fred Thomas che conosce bene la voce autuorevole del piano di razza ECM, si ascolta una melodia leggera, costruita sul pieno sviluppo di  un fraseggio agile che si configura in diverse variazioni, fino al punto in cui il brano ancora una volta ferma la sua corsa, vira sul rallenty, diviene una sintesi quasi modale, e le parole, perfino "freedom", anzi, tutto il testo vengono lasciati alle spalle, diventano mano a mano puro suono, perchè nella canzone contemporanea, sempre e qui fortissimamente, il narrativo cede il passo all'evocativo, al frammento in grado di sublimare l'eco diffusa di una sensazione, la concupisciene parabola del suono in una curva del sogno, in una notte velata di oscure tensioni armoniche, dolcezze che lasciano attoniti fino al risveglio. 

La meravigiosa versione di Wayfaring stranger è proprio questa oscurità che riposa l'anima. Un dolcissimo abbandono per notti di matura consapevolezza malinconica e spigoli jazz smussati dal tono cameristico di un'altra storia, di un 'altra epoca, questa, in cui a spiegare l'estraneità a cui siamo inchiodati è una voce soave e distesa, e la catarsi è possibile dunque come lamento, accoglienza del calore dove posa il suo colore, colore di una calma armonica che non rifugge la passione e usa le scale minori per segnare il passaggio di un rito, di una precisa percezione emotiva, fino al ritorno su una strada non più memoriale, ma espressione del presente.

Lux dopo il leggerissimo volteggio di Flying Kites, fissa un punto di totale coesione tra le varie anime musicali di questo disco e anche tra le traiettorie di stili musicali composte dai diversi musicisti del disco. Le siderali riverberazioni della chitarra di Rob Luft, che usa eco e riverbero con la grazia di un pittore astratto, sono la parte centrale di un brano dove l'unisono con la voce di Elina ci ricordano per un attimo che la matrice jazzistica anche se dissimulata, è sempre nella genetica di questo lavoro. La strofa di questo brano ha la chiarezza compositiva di una canzone inglese, le aperture e le modulazioni tonali di quel jazz europeo che ormai da un decennio sta segnando il nostro ideale di musica totale, dove anche le coordinate geografiche e i segni, in epoca trans-globale siano contenuti come semi di un frutto nuovo, di una unica immagine che tra dripping di modi e segni, abbia in sè lo spirito di tutte le sue origini diverse e polimorfe.

Gli ultimi brani sono due tradizionali folk in lingua albanese, Kur Më Del Në Derë e Nat zaman; nel primo caso si piega la scala minore armonica al suo valore nobile di refrain e feel a controcanto della melodia, nel secondo caso invece la intimità sacrale e liturgica del brano vede l'utilizzo della stessa scala araba confrontarsi con il forte carico emotivo della voce, che a quei frattali melismatici si concede alcuni lampi, per rimarcare più fortemente la fermezza di un canto grave, che si espande solo con i piani di sovrapposizioni sonori della chitarra, con le tavole di arpeggi diminuiti e minori, che sostengono e vestono con nera trasparenza la gravità di quel canto. Queste operazioni già riuscite e fortissime di riscrittura di quelle canzoni che vengono dal popolare più personale duniano, è uno degli elementi di volta in questo attuale processo di palingenesi della canzone e della musica vivente, laddove si riesce a trovare con la sua qualità precipua il legame, la valenza mitopoietica per rendere intellegibile e organica l'escursione tra i diversi stilemi, poichè ne mantiene appunto il seme, la natura profonda, spogliando di tutto il superfluo temporale, anacronistico e perduto. 

Il disco si chiude con un altro pezzo autoriale, Empty street, un brano che esprime nell'inedito la stessa carismatica gravità dei brani tradizionali e degli standard più blasonati, e infine con un omaggio alla canzone francese, altra lingua parlata e cantata di Elina, Hier encore, brano intepretato storicamente da Aznavour. 

Il senso del lavoro di Elina e dei suoi dischi è arrivato a un punto di vera maturità, di perfezione linguistica e di sintesi. La frontiera senza frontiere della nuova musica d'arte dovrebbe somigliare sempre più all'alta classe e alla complessa stratificazione di orme di questo disco. Qui in Italia, molti, avrebbero ancora tutto da rifare, se riuscissero a comprendere la sottile sapienza, la liberazione dalle formule che svilisce sempre lo stile in stilizzazione, e in cui ormai dilaga la nostra idea di musica popolare, quella che come diceva Pat Metheny una volta era ancora fortemente incentrata sullo studio e l'importanza di armonia e melodia. 

 

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Credits: sito web realizzato da Ilaria Limblici per Libri&Altrove

 

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