A proposito di Povere Creature di Y. Lanthimos (2023)

di Andrea Mazzola

È sempre difficile doversi esprimere su film molto chiacchierati (e molto premiati, come in questo caso). La propria opinione, infatti, rischia di aggiungersi a quella delle altre innumerevoli (e spesso ben più autorevoli) voci, con il rischio, mai del tutto evitabile, di dover a tutti i costi impegnarsi in un confronto. Anche in questa sede non ci si è potuti sottrarre al gioco, perciò vorrei procedere esordendo con una critica direttissima a chi, già prima di me e con molta più competenza, si è già espresso sull’argomento. A costoro vorrei semplicemente dire che sarebbe bello, per una volta - e soprattutto in questi sciagurati anni della contemporaneità - poter parlare di cinema nei termini del cinema e non, necessariamente, della politica o dell’ideologia più o meno velata. Ciò è valido, ovviamente, per qualsiasi opera d’arte. Qualcosa di simile, anche se di segno inverso, accadde ad esempio nel 1950 quando Togliatti, sotto lo pseudonimo di “R. Di Castiglia”, stroncò malamente 1984 di G. Orwell, in un potentissimo articolo apparso su Rinascita1. Si tratta, quest’ultimo, di uno dei più fulgidi e pregevoli esempi di critica marxista, sebbene proprio il suo carattere militante ha impedito al Nostro di scorgere, sotto l’anticomunismo (anzi, si dovrebbe dire antisovietismo, essendo Orwell un dichiarato trozkista) le evidenti qualità letterarie del romanzo: certamente un romanzo politico, ma pur sempre un’opera che rientra nel dominio dell’arte.

Occupiamoci, dunque, del film di Lanthimos per come si presenta al pubblico: si tratta di un film molto lungo, con ostentati virtuosismi di regia (e un evidente abuso del grandangolo), discutibili effett in CGI, finti cieli pastello di dubbio gusto, il tutto costruito su di un soggetto davvero interessante. La sceneggiatura, fortunatamente, scorre bene ed evita eccessivi scivoloni moralistici, essendo sostenuta da un’ottima prova attoriale della protagonista Emma Stone e degli interpreti dei ruoli comprimari, soprattutto il sempre bravissimo Willem Defoe. Se si volesse tentare di riassumere in pochissime parole il contenuto del film lo si potrebbe descrivere come la storia di una liberazione che fa un po’ il verso alle teorie (oramai un po’ vecchiotte a dire il vero) dell’Emilio di Rousseau. Se lo spunto narrativo della formazione di un’anima pura e immacolata, non toccata dall’ipocrisia del mondo, poteva certamente portare a degli sviluppi interessanti, esso scivola tuttavia nel più trito dei topoi: la liberazione della donna attraverso l’uso libero della sua vagina. Non che si tratti di un tema trascurabile, tutt’altro, ma mi pare che non ci si trovi più negli anni ’70 e che una certa visione biopolitica di foucoltiana memoria abbia, per fortuna, fatto il suo corso. Certo, tale questione può ancora avere una certa rilevanza, soprattutto in certe aree del mondo (incluso il nostro bigottissimo paese), ma è pur vero che l’aspirazione dell’opera d’arte quando vuole farsi Bildungskunstwerke (cioè, opera d’arte di formazione, se ci si concede questo gioco con la lingua tedesca) non può di certo rivolgersi al provincialismo. Tutto ciò senza entrare nel merito di altre questioni teoriche sollevate dalla pellicola (ad esempio, la liberazione può essere autentica se riguarda solamente il singolo? Che rapporto ha la presa di coscienza individuale con le questioni di genere e di classe legate all’oppressione della società borghese?). Si era d’altronde detto di non parlare di politica, anche se non ci siamo potuti esimere del tutto da questa tentazione.

Cosa resta, dunque, del film di Lanthimos? Resta, appunto, un film molto lungo e molto pretenzioso, in cui il registra ci mostra che certamente sa fare il suo mestiere, ma al di là dell’innegabile bravura del suo artefice non mostra poi molto altro. Si potrebbe a questo punto porre la questione da un altro punto di vista. Per chi è il film di Lanthimos? A quale pubblico stava pensando? Certamente il regista non aveva in mente il pubblico di massa, quello per cui l’unico cinema possibile è quello targato Marvel et similia (anche se confesso la mia parziale ignoranza sull’argomento, sia mai che le vere gemme del cinema contemporaneo si trovino proprio lì) ed evidentemente non pensava agli amanti del cinema d’essay, dato che essi si accorgono bene del trucco del regista e della vacuità filmica sotto un pur bellissimo e barocco involucro di immagini. Resta il dubbio che egli stesse pensando alla semicolta classe media, la quale evidentemente ha visto ben pochi grandangoli al cinema, e giustamente vederne uno ogni quindici minuti è sufficiente per poter gridare al capolavoro. Se poi mettiamo anche un tema attuale come il femminismo (quale femminismo poi?) il successo di critica è praticamente assicurato. Eppure c’è qualcosa che ho davvero molto apprezzato in questo film, ed è la magistrale interpretazione di Mark Ruffalo nel personaggio di Duncan, assieme alla progressiva e grottesca distruzione del maschio di cui si fa artefice. Esilarante, deliziosa e intelligentissima. Probabilmente è un film sugli uomini, anzi, sui maschi (i quali più di tutti fanno sempre la figura dei fessi), con buona pace di chi vede ovunque (e soprattutto al cinema) nient’altro che buone intenzioni.



1Cfr. R. Di Castiglia (pseudonimo di P. Togliatti), Hanno perduto la speranza, Rinascita, anno 18, nn. 11-12, nov-dic 1950.

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