Rossomanno, storia di una città senza nome
di Gaetano Cantaro
Il Monte Rossomanno (h. 885 m.) si erge tra gli Erei centrali ed è ubicato a sud di Valguarnera Caropepe (EN). L'area fa parte dell’omonima riserva naturale e si caratterizza per la presenza di diverse alture collegate: Cozzo Campana Cafeci, Rocca Crovacchio, Serra Casazze, Cozzo Siracusa, frequentate lungamente dal periodo protostorico fino al medioevo.
Sul Monte Rossomanno gli orizzonti sono vastissimi, il cielo è chiaro e l’aria purissima; oggi regna il silenzio di uno dei parchi più belli ed incontaminati della Sicilia ma un tempo vi fu vita, vita intensa, così scriveva nel 1928 il sacerdote Giacomo Magno nelle sue “Memorie storiche di Valguarnera Caropepe”.
Qui risuonò più volte il fragore delle armi fino a quando nel 1396 la città, ancora oggi senza nome, venne distrutta e alcune anime elette, lontane dal rumore del mondo, vi si insediarono per praticare l’eremitaggio, attendendo alla preghiera ed al lavoro.
Dov’è oggi quella storia che anche lo scrittore ennese, Nino Savarese, raccontò nel suo romanzo del 1935 "Rossomanno – Storia di una terra" ? È scritta nel silenzio, nelle zolle di terra, nelle migliaia di pietre che sembrano rotolate lì per caso e che, invece, furono lavorate da mano paziente, posate una sull’altra nel desiderio di assecondare le necessità di comunità di uomini, donne e bambini la cui memoria resiste a malapena all’ingiuria del tempo.
I primi abitanti occuparono questi luoghi diverse centinaia di anni prima della nascita di Cristo: erano uomini semplici e forti che usarono la pietra scheggiata per sopperire alle loro primarie esigenze. In quel tempo, i confini non erano stati ancora tracciati dall’egoismo e dalla violenza in quanto nessuno di quei primi abitanti si curava di possedere la terra, intesa ancora come il grembo di una madre: essi non conoscevano la brama del possesso che avrebbe cambiato per sempre la sorte dell’umanità.
Il sito fu frequentato a partire dall’Età del Bronzo ma è con l'Età del Ferro, poco prima della colonizzazione greca, che piccole comunità si insediarono stabilmente sui vari acrocori ed altipiani che, alternandosi come in una scacchiera, costituiscono un naturale sistema difensivo grazie a versanti molto scoscesi ed alla dominanza visiva che consente di apprezzare un panorama unico.
Poche ma fruttuose (1, 2 ) sono state le ricerche della Soprintendenza ai Beni Culturali. Tra il 1978 e il 1979 vennero alla luce i resti di una possente fortificazione munita di porta di accesso nonché diverse necropoli di varia epoca e tipologia (foto 3). In un pianoro adiacente all’acropoli vennero scoperte diverse tombe “a circolo di pietre” del VII sec. a.C. circa all’interno delle quali erano sepolti uomini di età adulta, forse guerrieri, dell’altezza media di 1,80 m.. Tali sepolture, sono posizionate "una accanto all'altra, in prossimità di un altare rettangolare e di una struttura circolare. Questa è quadripartita al centro da quattro bracci, formati da pietre che si incrociano, simile alla ruota di un carro e perfettamente orientata coi punti cardinali" (Dott. Eleonora Draià, in "Rossomanno da centro indigeno a polis Siculo – Greca", 2020, p. 343).
Sorprendente fu la scoperta, nel 1978, di un “campo di crani" che costituisce impressionante testimonianza di un particolare rito funerario indigeno, destinato forse ad onorare una “morte collettiva” dovuta a pestilenza o aggressione militare. Oltre 130 teschi umani furono trovati all’interno di una fossa rettangolare, piantati a terra, disposti su file regolari e con il viso orientato verso sud ovest, come se fossero stati schierati in un campo di battaglia. Tale sepoltura costituisce un rarissimo caso (forse unico al mondo) di decapitazione rituale peri-mortem, sebbene potrebbe ragionevolmente trattarsi di deposizione rituale secondaria post-mortem (conseguente al naturale susseguirsi di decessi non contestuali), finalizzata in entrambi i casi alla monumentalizzazione del fenomeno della morte.
Alcuni studiosi hanno avanzato la suggestiva ipotesi che possa trattarsi della sepoltura collettiva destinata a celebrare i guerrieri morti nel corso della "battaglia del Crisa" (l'attuale fiume Dittaino) tra Cartaginesi e Siracusani (392 a.C.); tuttavia ciò sembra smentito dalla presenza di crani di dimensioni apparentemente più piccole, forse di bambini, nonchè dal ritrovamento in situ di un corredo funebre costituito da tre oinochoai databili al VI sec. a. C. , quindi di epoca precedente a quel conflitto.
Sta di fatto che questi teschi vennero a suo tempo inviati per "ulteriori indagini" all'Università di Pisa, nei cui magazzini tuttora giacciono, in attesa di essere sottoposti ad esami scientifici che possano offrire risposte alle tante domande ipotizzabili su questa città che il geografo Cluverio, agli inizi del ‘600, identificava nell’antica Magella o Μάκελλα citata da Tito Livio (ipotesi recentemente smentita).
Lo storico Tommaso Fazello, nel XVI sec. si limitava a dire che "lontano da Enna sei miglia è un luogo chiamato Rosmano, dove si vedono infino al di d'hoggi l’anticaglie d’una città, e d’una fortezza rovinate, di cui per anchora non si sa il nome".
Le sommità dei vari acrocori che si susseguono nascondono antiche vestigia che testimoniano l’esistenza di un centro urbano densamente popolato. Come narrava Giacomo Magno nel 1928, “lo si dimostra con la presenza di frammenti di vasi greci trovati tra il Convento e l'Acropoli: sono lacrimari dalla grana finissima di argilla coperta dentro e fuori dal caratteristico smalto greco, lucente, nerissimo o rosso: qualche raro coccio porta qualche figura umana. Sono ancora manichi, fondi, labbri di vasi per usi domestici grandi e piccoli. Monete siracusane studiate da me e dal Senatore Orsi direttore del Museo di Siracusa sono state trovate a ponente dei ruderi di Serra delle casacce e precisamente nella tenuta Litteri e all'abbeveratoio sopra ricordato”.
Passeggiando tra cumuli di pietre è possibile scorgere i ruderi di numerose abitazioni la cui epoca spazia dal periodo ellenistico al medioevo. Spicca dall’alto, dominando la profonda “Valle dell’Inferno”, una piccola basilica cristiana, databile tra l'VIII e il IX sec. d.C., la cui pianta è rimasta intatta nonostante i secoli trascorsi dal suo ultimo utilizzo e nonostante sia stata depredata dagli arredi che la abbellivano, tra cui un imponente fonte battesimale in pietra lavica.
Suggestiva è la presenza di un edificio di culto a pianta rettangolare che nei diari di scavo del 1979 venne identificato come Hekataion. L'ipotesi che l'edificio cultuale possa attribuirsi all’antica dea madre Ecate deriva dal rinvenimento, al suo interno, di una statuetta della dea anche se questa preziosa informazione, tramandata oralmente, non è riportata nel diario di scavo.
Un indizio su tale culto potrebbe rinvenirsi nella "Tomba dei tre crani", scoperta nel 1978, dove, all'interno di una camera quadrangolare costituita da muretti a secco, furono scoperti tre teschi deposti in uno scodellone triansato mentre i resti scheletrici erano riposti in un lato della tomba. La particolare disposizione dei tre crani potrebbe riferirsi alla dea Ecate che veniva raffigurata proprio con tre teste o tre corpi, essendo la sua iconografia caratterizzata da triplice volto e triplice aspetto ?
L’ipotesi del culto primordiale della misteriosa dea Ecate, preesistente allo stesso pantheon greco, se confermata, sarebbe davvero sensazionale.
La più antica rappresentazione di Ecate è stata recentemente scoperta a Selinunte, ciò a dimostrare che questo culto era ben presente in Sicilia. Trattasi di una divinità femminile di origine pre-indoeuropea, successivamente acquisita dalla mitologia greca come divinità regnante sui demoni malvagi, sulla notte e sulla luna, invocata negli incantesimi e nelle antiche pratiche magiche. Era una divinità psicopompa, guidava le anime verso il regno dei morti e proprio per il suo ruolo di guida è spesso rappresentata con le torce in mano. Per il suo essere “trivia”, Ecate era il nume tutelare dei crocevia, ossia dei punti d’incrocio di tre strade dirette in opposti versi. Essa si associa all’idea del ciclo e dell’evoluzione – sia in termini temporali, come passato - presente - futuro che di evoluzione della coscienza.
Era adorata nei riti orfici insieme a Demetra (divinità che presiedeva la natura, i raccolti e le messi) e Cibele (dea della natura, degli animali e dei luoghi selvatici).
È molto probabile che si nasconda da queste parti anche un antico teatro che attende di essere riportato alla luce. Dal 2020, un gruppo di ricerca guidato dai prof. Luca Girella ed Emanuele Bienza dell’Università Telematica Internazionale Uninettuno nonchè dall'archeologa ennese dott.ssa Eleonora Draià, ha realizzato, di concerto con la Soprintendenza ai BB. CC. AA. di Enna, rilievi di superficie geomorfologici e aerofotogrammetrici i cui risultati sembrano confermare l’esistenza, a Rossomanno, di un teatro greco di dimensioni addirittura sovrapponibili a quello della città di Catania.
Si può dire che la vita in questi luoghi continuò a scorrere più o meno pacificamente per centinaia di anni attraversando la dominazione romana, bizantina, araba e normanno - sveva. Si scorgono ancora i ruderi della torre medievale di Scaloro degli Uberti, ricco esponente di antica famiglia ghibellina fiorentina, che qui giunse al seguito dei sovrani aragonesi, ottenendo nel 1299 il titolo di Barone della Gatta, di Fundrò e Raffadali, nonché, nel 1336, il titolo di Conte di Assoro. Questa nobile famiglia era imparentata con il condottiero Farinata degli Uberti, illustre personaggio fiorentino che Dante Alighieri collocò tra gli eretici nell'inferno della Divina Commedia perché “l’anima col corpo morta fanno” cioè non credono nell'immortalità dell'anima.
Sul finire del XIV sec., Giovanni degli Uberti, figlio di Scaloro, si alleò con la potente famiglia dei Chiaramonte nel tentativo di contrastare il potere regio nell’ambito della guerra civile che in quel tempo imperversava in Sicilia. Ciò scatenò la reazione del re aragonese Martino I, detto il giovane, il cui padre, il Duca di Montblanc, inviò il proprio esercito verso i possedimenti degli Uberti e dei Chiaramonte. Così, nell’anno 1396, vennero rasi al suolo le città di Rossomanno e Fundrò i cui abitanti vennero deportati nella vicina Enna.
In particolare, gli abitanti di Fundrò presero posto “alla coda della città di fronte a levante, nel punto ove si celebra il mercato di maggio e che per essa si dice «il quartiere Fundrisi»” mentre gli esuli di Rossomanno si insediarono “nella vallata a mezzogiorno, che si appella «Pisciotto» per esservi in Rossomanno una località che così si denominava” (Paolo Vetri, "Pagine storiche di Castrogiovanni", 1886, p.108).
Gli abitanti di Fundrisi detti “Funnurisani” vissero per secoli emarginati dal resto della città confinati nel loro quartiere-ghetto in quanto era loro impedito di entrare a Enna. Tale isolamento forzato fece sì che gli abitanti di Fundrisi potessero mantenere anche caratteristiche dialettali e culturali diverse dal resto della città che li ospitava.
Verosimilmente, gli eventi religiosi del periodo pasquale della “Paci” e della “Spartenza” sarebbero legati ad un’interruzione istituzionalizzata di tale isolamento che durava dalla domenica di Pasqua a quella successiva: durante questa settimana anche gli abitanti di Fundrisi potevano circolare liberamente per la città di Enna.
Nel 1396 vennero distrutti anche i vicini borghi di Polino e Gatta, i cui abitanti si rifugiarono, invece, a Piazza Armerina. Da allora, le città di Enna e Piazza Armerina, oltre ad averne cooptato gli abitanti, si contesero per diverso tempo i feudi di Rossomanno e Fundrò. Alla fine, Fundrò venne diviso tra le due pretendenti mentre Rossomanno venne assegnato alla città di Enna, i cui abitanti vi esercitarono gli usi civici quali pascolo, raccolta di legna, erba ecc..
“A differenza di tutti gli altri casali distrutti, i ruderi di Rossomanno non furono più molestati, meno che dai cercatori di tesori e di cocci di tegole, per essere dessi sulla schiena dell'alto monte, ove non sorsero più abitazioni: ed oggi si vedono come i morti stesi sul campo dopo una giornata di aspra battaglia” (G. Magno nel 1928).
In effetti, la violenza della distruzione della cittadella di Rossomanno fu tale che ancora oggi, dopo oltre seicento anni da quei tragici eventi, è possibile scorgere tra le pietre di crollo delle abitazioni le ossa degli abitanti trucidati sul posto.
Intorno al 1400, un gruppo di frati domenicani si stabilì in questi luoghi ameni edificandovi una chiesa e un romitorio, ai quali si accede tramite uno stretto e lungo viottolo che si diparte dall’antico centro abitato.
Nel 1928, il sacerdote G. Magno raccontava che “la chiesa è ad una nave ed è in uno stato pietosissimo, senza tegole, senza travi, senza pavimento, porte e finestre: è un ovile. Le ossa dei romiti, rimosse dal loro sepolcro, sparse qua e la, furono da mano pietosa raccolte nel vano dove prima c'era un altare. Era dedicata a San Giovanni Evangelista e se ne vede ancora la statua in gesso: ad altre due statue laterali fecero saltare le teste i cercatori di tesori”.
Alla chiesa è attaccato il romitorio costituito da sei vani a pian terreno comunicanti per mezzo di un corridoio e altrettante stanzette a primo piano.
In un atto notarile del 1690, reperito dal Magno, si rinvengono preziose citazioni sulla comunità monastica di Rossomanno: “Frate Leone de Messina da Aidone eremita del venerabile romitorio o congregazione di S. Giovanni evangelista sotto il titolo di Rossomanno...., come superiore del detto venerabile romitorio, la cui elezione fu confermata dall'Ill. mo e Rev.mo Signore Vescovo di Catania con atto della Magna Curia in data 3 giugno 1689, col consenso di tutti i fratelli eremiti, cioè Sac. fra Andrea Scarlata da Castrogiovanni, fra Antonio Di Fede da Valguarnera, fra Domenico Giunta e fra Santo Scarlata..., nomina come procuratore fra Antonio Bruno eremita della stessa congregazione, per garentire i beni dei romiti”.
Il popolo della vicina Valguarnera continuò a recarsi in questa chiesa in devoto pellegrinaggio, almeno fino al 1850, per celebrare la festa di S. Giovanni Evangelista che ne era il titolare: l'ultimo custode laico del romitorio, fra’ Giovanni da Castrogiovanni, fu trucidato barbaramente perchè lo si voleva derubare d'immaginari tesori. Ancora oggi, ladri di tesori si aggirano impunemente in queste amene contrade, sottraendo alla nostra comunità beni di inestimabile valore che vanno spesso ad arricchire illegalmente i musei di paesi esteri o le abitazioni di collezionisti senza scrupoli, privando un popolo di ciò che ha di più prezioso: la propria identità e la propria memoria.