Seconda parte

  1. Non un semplice rifiuto della violenza

Procedendo nella nostra analisi abbiamo già gli elementi per intravedere, seppur limitatamente, alcune evoluzioni nelle posizioni morali e politiche di Simone Weil, dal momento che la definizione di violenza sopra fornita e le riflessioni che ne conseguono, su cui abbiamo abbondantemente argomentato, sono il frutto di una concezione da lei elaborata a partire dal 1936, ma nelle riflessioni precedenti, e in particolare in un passo che troviamo in Riflessioni sulla guerra del 19331, Weil afferma che il metodo più difettoso possibile per valutare un conflitto è il seguente:

quello che pretende di valutare ogni guerra dai fini perseguiti e non dal carattere dei mezzi impiegati. Ciò non vuol dire che sia meglio condannare in generale l’uso della violenza, come fanno i pacifisti puri; la guerra costituisce in ogni epoca una specie ben determinata di violenza, di cui bisogna studiare il meccanismo prima di formulare un giudizio qualunque.

A suo avviso, dunque, il metodo più corretto è quello attraverso il quale si esamina qualsiasi fatto umano a partire dalle conseguenze necessariamente implicite molto più dei mezzi adottati che dei fini perseguiti, perché la logica e il coinvolgimento feroce della violenza, in cui vengono trascinati gli uomini, finisce per occultare i fini in nome dei quali una guerra era stata iniziata, e quello che era l’obiettivo fondamentale da perseguire, cioè lottare per il bene pubblico e per gli uomini, finisce per obliarsi in una società di guerra dentro la quale gli uomini non hanno più valore alcuno.

In uno dei passi appena riportati, contenuti in Riflessioni sulla guerra, notiamo che Weil fa riferimento ai pacifisti puri; a distanza di quattro anni, in Non ricominciamo la guerra di Troia, troviamo un’allusione a «persone che predicano la pacificazione in tutti i campi» diffondendo «sermoni che non hanno l’obiettivo di risvegliare le intelligenze e di eliminare i falsi conflitti, bensì quello di addormentare e soffocare le coscienze»2. In queste parole emerge un punto importante della sua filosofia quando si tratta di discutere in materia di guerra e pacifismo su cui è bene soffermarci.

Lo abbiamo già detto, per Simone Weil la guerra è un male assoluto. Tuttavia le ragioni di questa convinzione vanno al di là di un semplice rifiuto della violenza insita nel fenomeno stesso della guerra. È vero, senza ombra di dubbio, che lei vivesse ossessivamente il dolore per le sofferenze subite dalle masse, pertanto questo non spiega come fosse possibile per lei preferire la possibilità di oppressioni non meno brutali di quelle provocate dalla guerra pur di ostacolarne ogni possibilità di attuazione. Quando nella lettera scritta a Gaston Bergery3 contesterà la convinzione di quest’ultimo della necessità di opporsi con la forza alla Germania, le tesi che Simone Weil esporrà porteranno alla conclusione che se anche la Germania finisse con l’imporre un’egemonia in Europa e una conseguente egemonia sulla Francia, questa eventualità sarebbe certo più auspicabile rispetto alla militarizzazione della Francia nel tentativo di fermare Hitler; per di più si appresta a riconoscere con una certa freddezza che, nel caso di una tale superiorità tedesca, la Francia potrebbe essere costretta ad adottare alcuni divieti contro comunisti ed ebrei e purtuttavia reputa tale circostanza indifferente, dal momento che, parole sue, nulla di essenziale all’interno del paese verrebbe ad essere intaccato.

A questo proposito non abbiamo ancora accennato all’origine ebraica di Simone Weil, i suoi genitori provenivano entrambi da famiglie appartenenti al popolo eletto e ciò faceva di lei una ebrea da parte di madre e di padre, dunque se si mostrava così sicura nel valutare gli eventi in una tal maniera da acconsentire alle misure discriminatorie verso alcune categorie di cittadini, questo significa che fosse addirittura pronta a subire in prima persona le violenze e le sofferenze che sarebbero forse servite ad evitare il prezzo di una guerra ben più nefasta.4

Vediamo allora in cosa consiste questo male assoluto.

Per Simone Weil i conflitti più minacciosi sono quelli che malgrado l’apparenza non hanno un obiettivo ben definibile5 e questa mancanza di obiettivi ne rappresenta il maggior pericolo per diversi fattori.

In primo luogo, quando si avvia un conflitto per uno scopo ben preciso, secondo il suo punto di vista, le parti in causa possono sempre valutare tale obiettivo e trovare facilmente un accordo che possa essere più o meno favorevole a tutti gli attori in gioco, ma quando tale obiettivo è assente la guerra che scaturisce è praticamente illimitata6e illimitato sarà pure il suo svolgimento. Ciò che si presenta come la peculiarità delle guerre moderne è il loro carattere di irrealtà che si manifesta per mezzo delle parole vuote (per Weil parole omicide) in nome delle quali si fa la guerra e che sono tanto più pericolose quanto più si dimostrano prive di significato. Le parole a cui si riferisce sono spesso quelle che indicano un’ideologia e che, se non correttamente definite e analizzate, spingono ad individuare in una nazione o in un’altra l’incarnazione assoluta del capitalismo, o del comunismo, o della democrazia, determinando in un intero popolo il riconoscimento di un male totale da eliminare. In una situazione così posta non ci sono obiettivi e non ci sono compromessi, il successo di una parte si definisce esclusivamente attraverso l’annientamento dei gruppi umani che sostengono le «parole nemiche»7.

In secondo luogo, a fare il loro ingresso sono anche le nozioni di interesse nazionale e di prestigio8. Anzitutto questo interesse nazionale non può essere associato al benessere dei cittadini poiché all’occorrenza li si implora continuamente di sacrificare il loro benessere e la loro libertà proprio all’interesse della nazione di cui fanno parte, pertanto tale interesse si dimostra essere in realtà di natura economica e consiste essenzialmente nella capacità di possedere gli strumenti necessari per poter fare all’occasione la guerra.

A tutto questo si aggiunge il prestigio che non consiste in nient’altro che nella facoltà di fornire l’impressione agli altri stati di essere praticamente certi di vincere in caso di guerra, questo al solo fine di demoralizzarli. Al netto di queste considerazioni ciò che ne deriva è uno stato di continua militarizzazione in cui un paese si troverebbe sempre pronto a fare la guerra, pur non conoscendo i motivi per cui bisognerebbe farla.

Ma dunque, in cosa consiste la particolarità del pensiero di Simone Weil rispetto al pacifismo puro?

Consiste proprio nel mettere l’accento sulla necessità degli individui di attuare un’analisi critica delle ideologie di cui si serve la guerra, di cercare di fornire una definizione sensata delle parole usate per descrivere una nazione o uno stato, cercando di slegare le nozioni di democrazia o dittatura dal carattere assoluto di cui le vestiamo, allo scopo di pervenire alla lucida conclusione che una guerra svolta in queste condizioni è semplicemente priva di senso e foriera di violenze che non trovano un limite se non nella distruzione totale del nemico che abbiamo idealizzato.

Dunque, Simone Weil non predica un semplice rifiuto della violenza, ma spinge a compiere una lucida riflessione sull’insensatezza di una violenza esercitata in determinate circostanze.

  1. 1939: crisi e ripensamenti

Negli anni che seguiranno, le posizioni di Simone Weil subiranno dei cambiamenti che la porteranno a rimproverarsi del pacifismo degli anni precedenti e a partire dal 1939 riconoscerà nella guerra l’unico mezzo efficace per potersi opporre a Hitler e alla sua volontà di dominio. Attraverso la testimonianza riportata da Simone Pètrement veniamo a conoscenza delle parole da lei impiegate per tale mutamento di prospettiva:

Dal giorno in cui, dopo una lunga lotta interiore, ho deciso in me stessa che, malgrado le mie inclinazioni pacifiste, il primo dei doveri diveniva ai miei occhi perseguire la distruzione di Hitler con o senza speranza di successo, da quel giorno non ho mai desistito; è stato il momento dell’entrata di Hitler a Praga…Forse ho assunto tale atteggiamento troppo tardi. Credo che sia così e me ne rimprovero amaramente9.

In questa sua nuova fase della vita e del pensiero giungerà persino a delle conclusioni che probabilmente negli anni precedenti sarebbero state per lei impensabili e ormai convintasi dell’inevitabilità dell’intervento ammetterà, con grande dolore, la necessità di dover uccidere almeno un certo numero di soldati tedeschi per impedirgli a loro volta di fare del male. Non mancherà comunque di porre l’attenzione sulla condizione degli obiettori di coscienza ed è per questo che chiarirà il porsi di un obbligo, se non militare, almeno di difesa di tutti i cittadini francesi nei confronti della loro comunità. Questa difesa di cui parla si lega alla possibilità di un’azione non violenta consistente più nella guerriglia che nella guerra; ciò vuol dire: azioni di sabotaggio, attacchi alle comunicazioni nemiche e in certi casi sacrificio personale. È in quest’ottica che si colloca il suo Progetto per una formazione di infermiere in prima linea il cui scopo avrebbe dovuto consistere nel radunare gruppi di volontarie pronte a rischiare la propria sicurezza pur di fornire ai soldati delle cure sommarie ma sufficienti a salvargli la vita; lei stessa ne avrebbe fatto parte e del resto solo così avrebbe potuto rassegnarsi alla possibilità di uccidere, cioè solo alla condizione di correre il medesimo rischio di essere uccisa.

Tuttavia questo progetto era molto più che una semplice azione umanitaria; nelle sue intenzioni si configurava con un impegno politico volto a rispondere con la propaganda alla propaganda. Secondo la sua analisi, la principale forza del regime hitleriano consisteva proprio in una propaganda della forza che trovava maggiore espressione nelle formazioni speciali delle SS, con tutta la loro freddezza e insensibilità alla morte che li denotava tragicamente. Per avere la meglio su questi mezzi disumani bisognava al contrario mettere in campo la massima umanità di cui si fosse capaci. La dimostrazione di essere disposti a morire pur di salvare la vita a qualcun altro sembrava alla Weil l’unica azione in grado di contrastare la violenza senza tuttavia cedere al suo impero.

Ciononostante questa sua intenzione, prima sottoposta a Maurice Shumann in una lettera del luglio 1942 e successivamente ad Andrè Philip, non verrà approvata e Simone Weil, che tanto insisterà nel tentativo di farsi paracadutare in Francia passando prima da New York all’Inghilterra, dovrà rinunciare al suo desiderio di ricoprire un posto di primo piano tra le fila dei combattenti; riuscirà comunque a raggiungere Londra, ma la sua occupazione sarà ben diversa da quella sperata: Andrè Philip la assumerà negli uffici dell’Interno dei servizi della Francia libera a Londra e questo lei non riuscirà mai ad accettarlo.

Simone Weil morirà il mattino del 24 agosto 1943, quattro mesi dopo essere stata ricoverata per granulìa, una forma di tubercolosi. Durante i mesi del ricovero continuerà a scrivere lettere ai suoi genitori e selezionerà con attenzione gli amici cui affidare i suoi poemi o quelli che più tardi saranno i suoi Quaderni.

Morire eroicamente non le verrà mai concesso.

1Sulla guerra, trad. it. a cura di Donatella Zazzi, il Saggiatore, Milano 2017, p. 38

2Ivi, p. 91

3Gaston Bergery era il direttore della rivista di orientamento pacifista La Flèche

4Mi è sembrato opportuno inserire qui almeno un passo della lettera scritta da Simone Weil nel 1940 in risposta a Hoguette Baur, sua allieva al Lycèe di Roanne, che le offrì accoglienza insieme alla famiglia in una proprietà nei pressi della sua abitazione. Nei passi che seguono leggiamo la volontà di Simone Weil di assumere su di sé, senza nessuna prospettiva di fuga, ciò che le circostanze attuali imponevano. Il suo sguardo è sempre rivolto verso l’altro. Non possiamo fare a meno di provare una certa commozione. Dunque: «Se ora la sventura mi coglie, perché dovrei cercare di sfuggirle? Ne sarei forse tentata a motivo della debolezza il giorno in cui ne sentissi il peso, ma non mi sembra di doverlo fare. È meglio considerare come una grazia tutto ciò che la sorte apporta, felicità o sventura, vita o morte. Vi è poi un’altra cosa a cui suppongo lei non abbia pensato. Il contagio, il prestigio della vittoria, che consiglia di imitare i vincitori; la pressione dei vincitori; l’esasperazione causata dalla miseria e altri fattori indurranno quasi certamente in Francia, fra poco tempo- in inverno ritengo- una forma più o meno accentuata di razzismo. Io mi troverò in questo caso nel numero dei pari. Tutto considerato, ciò mi dispiace: soffrire per qualcosa che non si è scelto ed a cui non si è legati sembra stupido. Ma infine cionondimeno accadrà, e non ho alcun modo di sottrarmene. Ciò che posso fare è non far subire il contagio della sventura a quanti non hanno ricevuto per nascita una simile maledizione, anche e soprattutto e sono così generosi da non temere quel contagio! Immagini per un attimo che io venga a trovarmi con la mia famiglia in casa sua nel momento in cui si verificasse nella regione l’esplosione di razzismo. Sarebbe per lei doloroso mandarci via o anche solamente lasciarci partire, e per noi sarebbe moralmente impossibile restare. Non voglio che si produca una situazione simile: ecco perché non verrò in casa sua. Non mi dica che cose simili non accadranno in Francia: sono convinta del contrario. Ma non provo amarezza alcuna. Tali fenomeni hanno a che fare con cause generali molto facili da stabilire, e non devono provocare più amarezza di quanta ne possa provocare il gioco di forze della natura. È addirittura preferibile che in un periodo di miseria e violenza diffusa, una categoria ben determinata e limitata di esseri umani attiri su di sé le forme più acute di sventure. Non parlerei così se non facessi parte della categoria: ma facendone parte, ne ho il diritto».

5Sulla guerra, trad. it. a cura di Donatella Zazzi, il Saggiatore, Milano 2017, p. 69. In corsivo nel testo.

6Corsivo mio

7Ivi, p. 72

8Corsivo mio

9Simone Pètrement, La vita di Simone Weil, Adelphi, Milano 1994, cit. p. 612

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