Terza parte

  1. La strada della non-violenza

 

  • L’ideale comunitario di Gandhi e l’adesione individuale di Simone Weil

 

Da una prospettiva di carattere etico, l’itinerario intellettuale e spirituale di Simone Weil dà vita ad una serie di riflessioni che, sebbene non costituiscano un vero e proprio sistema filosofico organico, pongono tuttavia delle questioni da cui possiamo tentare di ricavare dei quesiti etici di grande interesse. La portata morale delle argomentazioni che tratteremo di seguito è senza dubbio di ampio spessore ed inevitabilmente lascerà spazio a degli interrogativi che rimarranno aperti. Tuttavia, porsi delle domande è forse il necessario punto di partenza da cui iniziare se si vuole sperare di pervenire a delle risposte, o perlomeno provarci. Procediamo dunque con la nostra trattazione.

Per cominciare, molta parte della riflessione di Simone Weil è di fatto concentrata sul tema della violenza e della sua legittimazione. A questo proposito, in un testo molto interessante dal titolo L’Esigenza della Nonviolenza[1], J.M Muller rileva che proprio nel periodo in cui la Weil rinuncia al pacifismo prima sostenuto, viene ad affermare di contro, con maggiore convinzione, la necessità spirituale di rifiutare tale violenza.

In effetti questo rifiuto della violenza, unito alla necessità di entrare in guerra, arriva di fatto a congiungersi con quelle che sono le intuizioni della dottrina della non-violenza elaborata da Gandhi e messa in pratica a più riprese nel corso della sua vita. Questa dottrina non si limita ad una negazione della forza da cui si fugge, piuttosto costituisce una resistenza di natura passiva che si concretizza nel rinunciare alla pratica di qualsiasi atto che possa in qualche modo ledere fisicamente il nemico. Nelle intenzioni di Gandhi però, l’elaborazione teorica e pratica della non-violenza risulta da un attento esame delle forze in gioco; infatti dal suo punto di vista, rispondere alla violenza con la violenza, quando si viene a presentare una sproporzione di forze tra le parti coinvolte, è praticamente inutile. Inoltre, dal suo punto di vista una tale resistenza è davvero efficace solo laddove un intero gruppo o popolo, e non il singolo individuo, venga ad impegnarsi in una azione coordinata di

non-collaborazione di tale natura.

Dal canto suo, J.M. Muller fa notare come, diversamente dalla prospettiva comunitaria di Gandhi, quella di Simone Weil sia un tipo di adesione totalmente individuale alla pratica non-violenta e frutto di un reale rifiuto della forza. Un’azione simile è per lei impossibile da praticare come politica di stato. Piuttosto, la crede sostenibile solo come attitudine individuale e personale; attraverso il rifiuto della forza e la compassione per l’altro ci si mette in cammino verso un percorso di perfezionamento spirituale. Su questo punto mi sento di concordare pienamente con J.M. Muller e la differenza da lui sollevata.

Ne consegue che una considerazione di natura morale di questo tipo si rivolge quasi unicamente al singolo individuo e non ad una collettività intera cui fornire una strategia d’azione collettiva.

Quindi, da una parte l’adesione comunitaria alla non-violenza secondo l’ideale di Gandhi, dall’altra l’adesione privata e personale secondo l’ideale di Simone Weil.

Dunque, per la nostra filosofa il perfezionamento etico sembrerebbe percorribile unicamente nella singolarità e anzi il contatto con la collettività potrebbe minarne il conseguimento.

Ciononostante, quando ad imporsi è un regime della forza, il rifiuto a esercitare violenza nei confronti del nemico viene marchiato dal gruppo come debolezza; al contrario il ricorso alle armi viene eretto a coraggio e riuscire a non desistere, perseverando nella pratica non-violenta, richiederebbe una forza d’animo fuori dal comune e difficilmente raggiungibile a detta della stessa Simone Weil.

Dunque, da questo emerge che l’idea di una non-violenza, concepita solo per il singolo e non per la collettività, si mostra estremamente problematica, poiché l’individuo sotto la pressione sociale ha davvero poche possibilità di resistere e persistere nella sua resistenza passiva.

Date queste premesse, il pacifismo di Simone Weil si presenta molto più come un modello di riferimento da seguire che non un vero e proprio imperativo da rispettare; d’altra parte, il vero cammino etico consiste non nel praticare una perfetta non-violenza, ma nello sforzarsi quanto più possibile di raggiungerla. In questo Simone Weil concorda con lo stesso Gandhi che pure ammette l’impossibilità di vivere alla perfezione questa strategia d’azione.

 

  • L’«obbligo rigoroso» e il diritto di uccidere

A ben vedere, Simone Weil ammette l’esistenza di circostanze in cui, per quanto ci si sforzi di non esercitare violenza, si possa venire a presentare un «obbligo rigoroso» che ci costringa a farlo.

Ora, questa ammissione potrebbe di fatto rappresentare una problematica non indifferente. Se infatti la non-violenza è sempre preferibile alla forza, e l’impero della violenza deve essere sfuggito con ogni mezzo[2], come saremo in grado di stabilire quando una tale necessità venga a presentarsi, costringendoci nella misura più estrema all’omicidio?

Simone Weil non sembra fornire parecchi esempi di una simile circostanza, anche se in un passo de La Grecia e le intuizioni pre-cristiane sostiene che un obbligo del genere potrebbe presentarsi a «capi dinanzi a subordinati o soldati di fronte a nemici»[3].

Tuttavia, una risposta non meno problematica, ma di carattere più normativo, ci viene offerta ancora da Simone Weil nel momento in cui rimette la questione alla coscienza personale del soggetto coinvolto, sostenendo che la regola da seguire nel valutare la necessità dell’azione consista nel «non andare mai neppure un millimetro al di là dell’obbligo che si ha verso gli altri e verso sé stessi». Questa linea di confine, a prima vista molto labile e arbitraria, può trovare un punto di riferimento in quella che nelle sue parole sembra suonare come una vera e propria massima morale:

 

Nel caso in cui la vita dell’altro fosse legata alla propria al punto che le due morti debbano essere simultanee, si vorrebbe ugualmente che l’altro muoia? Se il corpo e tutta l’anima aspirano alla vita, e se ciononostante si può, senza mentire, rispondere di sì alla domanda, allora si è nel diritto di uccidere l’altro. Non diversamente[4].

 

Una simile dichiarazione pone di fatto un principio di assoluta uguaglianza tra la totalità degli individui: viene sancita una massima parità del valore della vita di cui ciascuno dispone.

Di fatto qui sia l’istinto di sopravvivenza che la legge del più forte sembrano essere assolutamente scartati, lasciando il posto ad una prospettiva umana fortemente egualitaria.

Ciononostante, se davvero si arrivasse al punto di poter uccidere solo dopo aver accettato stoicamente la possibilità della propria morte, perché dovremmo uccidere l’altro e non sacrificare noi stessi?

Perché dopo aver consapevolmente asserito all’uguaglianza tra l’io e l’altro dovremmo privare di esistenza il nemico e non noi?

Non è nell’atto di uccidere che stiamo procedendo ad una scelta?

Se ci troviamo difronte ad un bivio, morire o infliggere la morte, e dinanzi a questo bivio ci volgiamo verso la seconda di queste possibilità, allora stiamo inevitabilmente compiendo una scelta ed esprimendo una preferenza; nel medesimo momento in cui infliggo la morte, la mia adesione alla totale parità tra me e l’altro è già scomparsa poiché, pur accettando il nostro eguale diritto alla vita, ho allo stesso tempo dato priorità al mio diritto e negato quello dell’altro.

Nei testi da me vagliati non ho trovato una risposta diretta a siffatti quesiti ma la letteratura primaria lasciataci da Simone Weil è molto vasta e non escludo che una risposta potrebbe trovarsi in qualche suo lavoro da me non ancora preso in considerazione. Purtuttavia, sappiamo che nel momento in cui Simone Weil si rimprovererà del pacifismo dei primi anni trenta, la motivazione che fornirà sarà quella di aver a suo avviso commesso un crimine di negligenza verso la patria. È forse quest’obbligo, quello che abbiamo verso la difesa della patria, che può in alcuni casi direzionare l’azione e costringerci ad uccidere il nemico?

Neanche questa sembra essere una soluzione esaustiva, poiché nel pensiero di Simone Weil, adempiere al dovere nei confronti della patria può avere realizzazione anche attraverso l’azione

non-violenta degli obiettori di coscienza, inoltre l’obbligo rigoroso, che porterebbe all’esercizio della forza, si realizza in un caso particolare all’interno della stessa azione non-violenta. Dunque, il quesito non viene ancora risolto.

Interessante da inserire a questo proposito è l’irrisolvibile contraddizione che Simone Weil rintraccia tra la necessità e il bene[5]. In effetti l’obbligo rigoroso che ci costringe alla violenza viene da lei definito privo della possibilità di legittimazione; in nessun caso un atto violento sfugge alla sfera del male e la sua necessità non rappresenta una garanzia di giustificazione.

Per di più, commettere il crimine provoca in noi stessi un dolore «lacerante» e di questo dolore bisogna acquisire piena consapevolezza. Questa presa di coscienza rappresenta la chiave per dotare di integrità l’individuo e ridurre al minimo il perpetuarsi della violenza, perché qualora ci si lasciasse avvolgere dalla logica del male, e soprattutto se si trovasse una giustificazione al nostro atto di violenza, si finirebbe per abituarsi al suo concretizzarsi, smettendo così di percepire quella contraddizione sopra citata tra il bene e la necessità della violenza.

Simile integrità di fronte al male, unita all’onere personale di valutare la situazione di obbligo rigoroso, sanciscono una profonda responsabilizzazione del soggetto che, privato della possibilità di legittimare la sua azione, deve sempre valutare con estremo rigore le circostanze del suo agire, non disponendo di un preciso metodo per stabilire la presenza o l’assenza della necessità.

Sorge qui un altro possibile interrogativo, laddove ci si potrebbe domandare quale posto della gerarchia dei valori occupi il Bene per Simone Weil. Questo Bene, che deve rimanere a noi presente al fine di ricordarci come un’azione di forza sia sempre Male, sembra comunque essere subordinato alla necessità nel momento in cui essa venga a presentarsi. Dunque, se neanche il Bene può fungere da guida in certe circostanze di necessità, allora riaffiora ancora il problema di stabilire cosa possa davvero determinare l’esigenza della violenza.

È possibile che a guidarci in questa scelta sia la preoccupazione per la collettività?

Da una parte emerge l’impressione che l’attenzione morale di Simone Weil sia fin qui concentrata su di una prospettiva principalmente individuale, ma è pur vero che questa attenzione posta sull’individuo si lega costantemente alla considerazione dell’altro a cui si deve il massimo del rispetto che siamo tenuti a riconoscergli. Difatti, quando reputerà la guerra come l’unico metodo efficace per sconfiggere la minaccia di Hitler, confesserà la necessità di uccidere una parte dei suoi uomini al fine di impedirgli di commettere mali di gran lunga peggiori, ma ricordiamoci che qualche tempo prima lei stessa si mostrava disposta ad accettare l’oppressione di un particolare gruppo (ebrei o comunisti) pur di scongiurare una guerra generale che avrebbe messo in pericolo un numero maggiore di individui. Quindi, potremo supporre che in questo caso Simone Weil, nell’affermare la necessità della guerra, abbia attribuito maggiore importanza alla salvezza e alla libertà di un gruppo più numeroso minacciato di violenza, accettando di condannare eventualmente a morte il gruppo fautore della minaccia. Ma questo si presenta come un caso particolare e poco adatto per poterne trarre una qualche regola generale.

 

  1. L’Io e la sua responsabilità dinanzi al conflitto

 

Se la questione sopra affrontata rimane aperta e ci riporta inevitabilmente all’unica indicazione fornitaci dalla Weil che, lo ricordiamo, rimanda tutto alla coscienza dell’individuo, altro spunto interessante può essere tratto dalle sue posizioni relativamente a quello che sarebbe a suo avviso il giusto atteggiamento del singolo dinanzi al conflitto.

Simone Weil pare intravedere un ulteriore obbligo, incombente sul soggetto, che fa la sua comparsa nel momento in cui, aprendosi la possibilità della guerra, per quanto non si desideri, se questa ha luogo allora è necessario prendervi parte. Questa convinzione più che poggiare sul dovere sopra citato di cui si dispone nei confronti della patria, sembra più sostenersi sull’impossibilità di ritenersi del tutto innocenti, qualora una parte di individui soffrisse senza che tale sofferenza toccasse in qualche modo anche se stessi.

Il senso che ho personalmente rintracciato nel rifiuto granitico della «retrovia»[6] da parte Simon Weil mi sembra trovare una certa somiglianza con l’analisi effettuata da Karl Jaspers sul tema della colpa, in particolare su quella che lui definisce la «colpa metafisica».

Nella sua argomentazione Jaspers sostiene l’esistenza di quattro modi differenti dell’utilizzo del termine «colpa», due di questi hanno carattere individuale e i restanti due carattere collettivo.

La prima colpa è quella criminale, questa è sempre individuale e rappresenta un fatto giuridico, perciò in questo caso si è colpevoli laddove un tribunale riconosca tale colpevolezza; la seconda è di tipo morale, a stabilire la nostra colpevolezza in questo caso non è un tribunale ma la nostra personale coscienza individuale; la colpa da lui definita politica è invece di natura collettiva. Per cui qualora chi detenga il potere commetta un qualsiasi crimine, a parteciparne sarebbero anche coloro responsabili di avergli conferito l’incarico rivestito; infine esiste una colpa metafisica, questa è legata ad un senso di solidarietà che si pone alla base dell’umanità stessa e siffatto crimine si concretizzerebbe nel momento in cui una simile solidarietà venisse ad essere infranta. Questo accade quando di fronte ad una violenza inflitta a danno di un qualsiasi essere umano, in qualunque parte del mondo lui si trovi, non si faccia comunque nulla per cercare di impedirlo; nelle parole di Jaspers:

 

C’è tra gli uomini come tali una solidarietà la quale fa si che ciascuno sia in un certo senso corresponsabile per tutte le ingiustizie e i torti che si verificano nel mondo, specialmente per quei delitti che hanno luogo in sua presenza o con la sua consapevolezza. Quando uno non fa tutto il possibile per impedirli, diventa anche lui colpevole.

 

Una certa solidarietà di questo genere sembra trasparire, dunque, anche dalle affermazioni di Simone Weil, anche se in questo senso quest’ultima sembra andare ancora oltre.

Nel caso di Jaspers il nostro dovere consiste, infatti, nel cercare di impedire il verificarsi di un delitto commesso a danno di altri; nel caso di Simone Weil, qualora non si riuscisse a impedirlo, il passo successivo prescrive di trasferire su di sé una parte di quel dolore provocato.

Oltre a tutto ciò che è già stato analizzato nelle pagine precedenti, è opportuno considerare come nonostante la sua adesione successiva al cristianesimo, di cui non abbiamo ancora accennato, e nonostante la natura delle questioni cui si rivolge la sua attenzione, la sua filosofia rimanga comunque scevra da orizzonti finalistici di natura religiosa. Ogniqualvolta si presti a trattare il tema della violenza e dell’omicidio, perlomeno da ciò che emerge nelle fonti bibliografiche di cui mi sono servita per questo lavoro, non sembra profilarsi nessuna preoccupazione di tipo salvifico legato alla sfera dell’anima. L’assenza di tale rimando contribuisce a rendere universale il pubblico di riferimento cui tale riflessione può di fatto rivolgersi, mentre la presenza dell’obbligo che si ha verso gli altri è in effetti dettata, non da un’inquietudine legata alla preoccupazione dell’eventuale caduta del proprio spirito, ma da un principio di umanità e di giustizia che si costruisce semplicemente sulla convinzione di un uguale valore della vita attribuito a tutti gli esseri umani esistenti. Su questo, dal suo canto, non sembrano esserci dubbi.

 

In conclusione, è bene considerare che le riflessioni maturate da Simone Weil hanno subito una costante evoluzione che nel corso del tempo è stata influenzata dalle sue particolari esperienze di vita, inoltre la sua precoce morte ci porta facilmente a supporre che molte delle conclusioni da lei raggiunte avrebbero potuto subire possibili cambiamenti negli anni a venire.

Ciononostante, l’insieme delle sue argomentazioni porta con sé la traccia di alcuni elementi essenziali che ne caratterizzano il pensiero. Una parte di questi potrebbero essere riassunti nell’attenzione all’individuo e al suo obbligo morale nei confronti dell’altro; nel concetto di necessità slegato dalla nozione di bene; nell’esigenza di spirito di abnegazione e in una prospettiva di giustizia che nel particolare caso della guerra armata, pur non essendo espressamente citato, potrebbe forse coincidere nel suo pensiero, soprattutto nelle fasi finali della sua vita, ad una logica del perseguimento del male minore, di quello che porti con sé le conseguenze meno nefaste.

Su quest’ultimo punto non mi sento di osare troppo, avanzando considerazioni eccessivamente personali. In primo luogo perché non dispongo di sufficienti conoscenze in merito per poter affermare con sicurezza una simile presa di posizione e, in secondo luogo, perché nei testi da me analizzati Simone Weil non pare affermare esplicitamente una tale intenzione.

Lascio comunque aperta al momento questa possibilità, insieme a tutte quelle che potrebbero naturalmente scaturire dalla totalità della sua riflessione.

Bibliografia

Hourdin G., 2019, Simone Weil. La biografia, Odoya, Città di Castello

Muller J.M, 1994, Simone Weil. L’Esigenza della Nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino

Zazzi D., 2017, Simone Weil. Sulla Guerra. Scritti 1933-1943, il Saggiatore, Milano

Weil S. 1960, Escrits historiques e politiques, Gallimard, Parigi

[1] Simone Weil. L’Esigenza della Nonviolenza, Muller J.M, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1994

 

[2] Si vedano le recenti affermazioni riportate a p. 4 del presente elaborato.

 

[4] Quaderni, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano, 1982, pp. 57-58

[5] Corsivo mio

[6] «Quando mi sono resa conto che, malgrado i miei sforzi, non potevo impedirmi di partecipare moralmente a questa guerra, e cioè di desiderare ogni giorno, ogni ora, la vittoria degli uni, la sconfitta degli altri, mi sono detta che Parigi era per me la retrovia, e ho preso il treno per Barcellona con l’intenzione di arruolarmi». Tratto dalla Lettera a Georges Bernanos. Sulla guerra, trad. it. a cura di Donatella Zazzi, il Saggiatore, Milano 2017, p. 62

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