Dans le mesure de l’impossible
Mi trovavo a Milano per le prove di un nuovo spettacolo a cui sto prendendo parte, di cui saprete prossimamente. Venerdì sera, con il gruppo di lavoro, siamo andati al Piccolo Teatro Strehler e, inserito nel contesto del festival "Presente Indicativo" abbiamo assistitto a uno spettacolo dal nome "Dans le mesure de l’impossible", regia di Tiago Rodrigues.
Un’esperienza sensazionale.
Il regista ha mosso la sua ricerca dal desiderio di conoscere e raccontare le storia dei medici e volontari delle organizzazioni ‘Medici senza frontiere’ e ‘Croce rossa Internazionale’, che operano in zone di guerra.
Gli attori e le attrici, due e due, interpretavano con nuda semplicità ed estrema forza gli aneddoti tratti dalle interviste fatte agli operatori umanitari, portando in scena, con un respiro sempre corale e di grande ascolto, le emozioni, le ferite e le situazioni vissute da questa gente. Un’espressione che mi ha molto colpito è stata: “All’inizio credi che puoi salvare il mondo, poi capisci che non puoi salvarlo, ad un certo punto ti accorgi che il mondo non può essere salvato".
Lo spettacolo parla ben tre lingue: francesce, inglese e portoghese, con qualche incursione di russo e italiano, ed è stato offerto al pubblico con i sovratitoli in italiano.
Le guerre trattate spaziano in luoghi differenti e tempi più o meno recenti: ex Iugoslavia, Yemen, Tigray, Medio Oriente e chi più ne ha più ne metta, ahimè!
In scena: l’essenziale. A simboleggiare tutti gli accampamenti e la precarietà della vita una grande tenda,
che evocava deserti, montagne, rifugi, nuvole e che a mano a mano veniva sollevata dagli attori e dalle attrici tramite corde.
Sul fondo, oltre agli interpreti, dotato di batteria, gong e altri strumenti analogici, stava un percussionista, che già dall’ingresso del pubblico, tonava colpi cadenzati, leggeri ma gravi. Questo faceva sì che appena entrato in sala ti sentivi parte di uno spazio teatrale vivo e pulsante.
Lo spettacolo è durato due ore, ma vorrei soffermarmi sull’ultimo quarto d’ora.
Quando gli interpreti sembravano avessero esaurito le storie e gli aneddoti da raccontare, il sopracitato percussionista ha dato il via ad un assolo davvero indimenticabile, cioè la riproduzione sonora dei suoni di guerra. Definirei questo momento terribile e implacabile.
Il mio corpo non aveva mai percepito e vissuto quei rumori, quelle frequenze così basse, roboanti e pervasive. Cannoni antiaereo, bombe, movimenti di terra provocati da passaggi di mezzi pesanti, esplosioni che si propagano. Ammetto anche di aver avuto paura ma allo stesso tempo nutrivo la consapevolezza di star vivendo un momento catartico.
Alla fine dell’assolo mi sono commosso e dentro mi è uscita una voce che diceva: “La guerra è finita”.
All’uscita degli interpreti il pubblico, soprattutto io e il mio gruppo di lavoro, s’è spellato le mani ad applaudire.
Dopo lo spettacolo mi sentivo euforico, pieno di coraggio, pronto ad andare in fondo e ‘preparato’. A cosa? Alla guerra, che come un’ombra incombe su di noi, anche se ho contezza che la realtà supera sempre l’idea, per quanto una messinscena possa aiutarti ad immaginare e vivere quel momento. E quel poco che fa il teatro è tanto.
Anche sugli altri lo spettacolo ha sortito un effetto così forte, sebbene con sfumature diverse, tant’è che il giorno dopo, all’inizio delle prove, il nostro regista ci ha invitati a un momento di raccoglimento su ciò che avevamo visto la sera precedente. Riporto qui le parole chiave che sono venute fuori: onestà, spalancarsi, costruzione politica. Parole che il nostro regista ci ha invitato a interiorizzare ed a considerare come percorsi da intraprendere, per raggiungere una qualità attoriale in cui l'interprete aderisce totalmente alla storia, senza vagheggi personali.
Subito dopo ci siamo messi a lavoro con il desiderio e la speranza che il nostro spettacolo, prossimo al debutto, possa essere anch'esso testimone di tutto ciò.
Un grande abbraccio e a presto.
Simone Cammarata