Dall’Etnoscienza all’Etnobotanica

Etnoscienza e mondo antico

All’interno degli studi antropologici si colloca un particolare settore denominato “Antropologia dei Saperi”. Questo settore si incontra con una disciplina di recente fondazione, l’etnoscienza, termine stimolante, ma talvolta criticato per la compresenza dei termini “etnografia” e “scienza”. Di fatto il termine stesso potrebbe rimandarci ad un termine oppositivo, per l’appunto quello di scienza. Ma non è possibile effettuare un paragone con la scienza odierna, nel momento in cui la scienza moderna è più complessa e fa uso di strumenti e metodi diversi, anche sul piano dell’osservazione (pensiamo ad esempio all’uso di microscopi, analisi chimiche, ecc.). Piuttosto l’unico confronto possibile può essere quello con la scienza antica, per la presenza di osservatori critici, che potremmo paragonare nell’operato ai moderni ricercatori nell’ambito dell’etnoscienza. Gli osservatori ricercatori del passato e quelli di oggi si dedicano alla raccolta dei dati, all’analisi degli stessi, al confronto delle diverse prospettive che emergono e di quelle già esistenti, cercando di trarre delle conclusioni logiche. In linea di massima mettono la loro curiosità al servizio dei metodi di indagine, per raggiungere una migliore cognizione del sapere, confrontando, ai giorni nostri, ciò che è stato con ciò che adesso è. Avviene così una scissione dell’uomo comune dallo scienziato, il quale si interpone tra i diversi saperi, cercando di unificarli. Lo scienziato antico svolge il ruolo di primo testimone della sua cultura; quello moderno è testimone di quella presente e ricerca in questa le tracce del passato, ponendovisi a confronto ed elaborando risultati talvolta soddisfacenti: «Quella che noi chiamiamo etnoscienza è appunto la somma teorica dei saperi pratici sul mondo posseduti da una comunità; saperi che abbiano valore di sapere e non di credenza . Tuttavia, il termine etnoscienza fa la sua prima apparizione nel 1957 (ethnoscience), all’interno della fase nota come New Ethnography. Infatti, la storia dell’etnoscienza può dividersi in tre periodi: il periodo preclassico, compreso tra il 1896 e la prima metà del XX sec.; il periodo classico, che interessa i soli anni Sessanta; il periodo post-classico, dagli anni Settanta al giorno d’oggi.

Di questo ambito di ricerca si è occupato negli anni ottanta Giorgio Raimondo Cardona, lasciandoci alcune interessanti osservazioni, capaci di portare alla conoscenza di questo particolare campo di studio e ricerca sul mondo antico, con il quale spesso riusciamo a leggere anche aspetti culturali e antropologici dei giorni nostri. Gli albori di questo metodo di indagine racchiuso dall’etnoscienza, inizia intorno alla metà del XIX secolo, quando alle annotazioni sporadiche dei viaggiatori cominciano a concorrere le attente e pertinenti osservazioni degli etnografi, che alla fine del secolo lasciano una grande quantità di monografie e articoli etnografici, che chiarificano la conoscenza e la visione dei popoli dei diversi continenti. Proprio nel 1896, fase preclassica dell’etnoscienza, compare il termine ethnobotany, il quale copre diversi approcci e interessi, da quello per le nomenclature all’archeologia botanica, dall’utilizzo degli elementi naturali alle loro classificazioni all’interno delle diverse culture. Queste osservazioni preliminari stanno alla base degli interessi scientifici e antropologici del nuovo secolo, nei primi decenni del quale ci si concentra, in merito alle diverse culture, non solo sugli aspetti folklorici, ma anche su quelli naturalistici, in particolare sulle conoscenze popolari relative a piante e animali, capaci di rivestire il ruolo di simboli, di adempiere a funzioni curative, o semplicemente da prendere in considerazione perché già dotati di una significatività in relazione alla denominazione. Questi aspetti, cosiddetti popolari, furono cosi messi a confronto con quelli scientifici, per capirne le sostanziali differenze o attinenze.

Una tappa fondamentale di questo percorso è da individuare nel saggio di Émile Durkheim del 1903, svolto in collaborazione con Marcel Mauss, basatosi sulle primitive e onnipervasive forme di classificazione, associate ancora ad un espediente dell’organizzazione sociale, e non ad un valore conoscitivo. Si trattò di un lavoro essenziale, con uno sguardo alle realtà extraoccidentali, fonte di ispirazione di molte ricerche che da questo saggio derivano, nel quale gli autori individuano un pensiero logico alla base dei sistemi di classificazione primitivi, e simili al pensiero scientifico occidentale: classificazioni tali da «far comprendere e rendere intellegibili le relazioni che esistono tra gli esseri».

Si gettano così le basi dell’etnoscienza, che secondo i due autori ha come obiettivo la descrizione e l’interpretazione delle classificazioni, radicate nelle relazioni sociali, poiché attraverso queste viene organizzato il reale . Attraverso questi studi si giunge negli anni Sessanta alla fase classica dell’etnoscienza, e all’opera portata a compimento da Lévi-Strauss, sintesi di anni di ricerche appurate non solo per le culture detentrici di sistemi complessi, ma anche di quelle primitive, indagate già negli anni Cinquanta del XX secolo. Il libro più celebre in tal senso è Il pensiero selvaggio (1962). Negli anni Sessanta si sente l’esigenza di trattare i dati raccolti in maniera sistematica, così da individuare principi universali e generali. Secondo Marcel Fournier «I tre aspetti caratteristici dell’etnoscienza classica sono: la definizione della cultura, il ricorso alla linguistica e la concezione del rapporto tra osservato/osservatore».

Nel primo caso la cultura coincide con l’organizzazione cognitiva dei fenomeni materiali, quindi sulla conoscenza che ha a che fare con credenze e saperi all’interno della società, attraverso i quali è possibile avere una propria percezione del mondo che ci circonda. Lo studio delle tradizioni e dei fenomeni culturali si traduce in ciò che appartiene alla percezione cognitiva di quella cultura, alla base delle decisioni e delle linee di azione di questa.

Nel secondo caso un ruolo di grande interesse è svolto proprio dalla linguistica, poiché è proprio attraverso la lingua che si manifesta e si rende visibile la cultura, dato che il culturale viene relegato al semantico: proprio nella lingua si rintraccia la visione del mondo che appartiene agli individui che costituiscono una determinata società e dunque appartenenti ad un ben preciso sistema culturale. È con la lingua, infatti, che l’uomo classifica, organizza, nomina e sistema le cose del mondo.

Il terzo punto corrisponde alla raccolta di dati e informazioni sul terreno, quindi confrontandosi con l’individuo di una certa cultura, il quale si rapporta da sempre con ciò che lo circonda, per l’appunto l’osservato, nel nostro caso piante e animali. Da questa corrispondenza e metodo di indagine è possibile cogliere i punti di vista di una comunità, e le esigenze dell’etnografo, o in questo caso se vogliamo possiamo definire il ricercatore etnoscienziato, il quale attraverso il dialogo con un soggetto, porta questo a far si che sia lui stesso a condurlo alle domande da porre, come un vero e proprio insegnamento da parte dell’osservatore nei riguardi del ricercatore. Cosi è possibile capire cosa si deve chiedere e soprattutto cosa può essere utile sapere rispetto alla propria indagine e interessi. Grandi passi avanti nella ricerca sono stati compiuti da Brent Berlin nella fase successiva dell’etnoscienza, il quale soffermandosi sulla percezione del mondo esterno e l’evoluzione della classificazione legata al mondo biologico, è riuscito ad individuare dei principi universali propri di ogni tassonomia.

A tal proposito è bene affrontare il tema della classificazione, individuandone i diversi tipi, e dando una definizione adatta di tassonomia. La classificazione a noi utile e di nostro interesse è quella dei taxa, ovvero di nuclei concettuali individuati da tratti definitori, proprietà, caratteristiche ecc.; a un taxon corrisponde un segno linguistico o lessema; i vari lessemi della lingua si dispongono secondo certi raggruppamenti che hanno in comune uno stesso tratto di significato: si parla cosi di «terminologia della parentela» o di «campo semantico». La griglia all’interno della quale si organizzano i taxa corrispondenti a un dato dominio prende il nome di tassonomica. All’interno di una tassonomia i taxa appartenenti a un dominio ben preciso vengono organizzati per ranghi e livelli, e dunque disposti gerarchicamente: i taxa di un dato livello sono dominati dal livello superiore e a loro volta dominano quello inferiore. Un vero e proprio ordine che si sussegue per mezzo di nodi aventi a loro volta una denominazione generica e che possa racchiudere altrettanti elementi nei quali le relazioni sono composte da famiglie, sottofamiglie e generi.

Quello tassonomico negli ultimi anni si è affermato come momento classificatorio efficace, non solo nell’organizzazione di elementi naturali legati alla flora e alla fauna, ma anche per manufatti ed altri elementi estranei alla natura, a seconda delle esigenze del ricercatore e alle categorie linguistiche con le quali si ha a che fare. All’interno del modello di pensiero logico occidentale, per questa classificazione varrebbe il principio di non contraddizione, per il quale un elemento deve essere diverso dal suo opposto, e non può relegare a se la propria identità e quella ad essa diversa. In questo modo viene evitata la circostanza per la quale uno stesso elemento possa essere assegnato a due taxa dello stesso livello, mantenendo così la classificazione univoca e non biunivoca. Nel mondo dell’etnoscienza, e dallo studio dei pensieri diversi da quelli occidentali, si vede invece come questa regola non venga rispettata, e uno stesso individuo potrebbe appartenere a due taxa differenti e dello stesso livello, causando una contraddizione e una mancanza di logica. Di conseguenza la presenza di uno stesso lessema all’interno di livelli diversi, fa si che questo traduca due taxa. Questa distinzione appare chiara nel momento in cui comprendiamo che l’assenza di contraddizione può essere consapevole all’interno di classificazioni artificiali, che di conseguenza differiscono totalmente dalle classificazioni popolari, risultanti da una stratificazione nel tempo.

Oltre queste prospettive, le classificazioni più frequenti presentano sia attenzione per le proprietà morfologiche da una parte, sia attenzione per le considerazioni di carattere pratico dall’altra. Da questi preamboli noi siamo consapevoli del fatto che entrambi i criteri coesistono, ma l’etnoscienza fa uso e si identifica maggiormente con il secondo tipo di classificazione, quello popolare e in cui anche la contraddizione è possibile, in particolare in riferimento al mondo vegetale e animale. è nel caso dello studio del mondo vegetale che entra in scena quel procedimento di studio scientifico e antropologico che è l’etnobotanica, appartenente sempre ai metodi scientifici di indagine dell’etnoscienza. Come è stato già ricordato, la comparsa del termine ethnobotany si data al 1896, ad opera del botanico statunitense John W. Harshberger, il quale coniò questo termine allo scopo di individuare lo studio dell’uso delle piante nelle primitive comunità. Ma è ancor più negli anni Settanta del XX secolo che si propone con maggiore interesse lo studio del mondo vegetale legato alle diverse culture, e dunque lo studio etnobotanico.

L’etnobotanica in sé e per sé si occupa dello studio delle piante all’interno delle società e dunque delle culture umane: tale pratica di studio solo di recente è stata identificata come un campo di ricerca indipendente, influenzata da correnti e tendenze che si fondono con campi scientifici diversi. Con l’etnobotanica è possibile sviluppare una conoscenza relativa alle piante che non riguarda semplicemente la loro classificazione tassonomica e le loro caratteristiche oggettive bensì l’insieme dei tratti e delle proprietà che la cultura popolare assegna loro. Il risultato è lo studio di elementi connotati da una vera e propria identità culturale. Seguire i parametri di ricerca dell’etnobotanica significa mettere in luce tutte quelle cause che hanno portato alla loro creazione, dal momento in cui le classificazioni popolari non possono ritenersi obiettive come quelle del mondo della scienza odierna, poiché da queste culture il mondo naturale può essere anche reinventato. In poche parole, lo ribadiamo, l’etnobotanica considera da un punto di vista emico i sistemi classificatori alternativi, studiandoli in simbiosi con quelle culture che di fatto li hanno prodotti, dato che il campo vero e proprio di questa disciplina è il derivato dei contesti sociali, culturali e ovviamente naturali. Proprio in questa direzione procedue il lavoro di questa tesi, indagando sull’uso che si fa della melagrana, sull’effettiva percezione di essa in qualità di elemento naturale ma anche sulle diverse denominazioni e quindi forme linguistiche ad essa assegnate, le quali permettono di ricostruire al meglio il suo ruolo nella cultura antica. Indagando il mondo della natura si indaga il mondo delle società umane, abbracciando così a livello scientifico ed interdisciplinare, non solo il campo dell’antropologia culturale, ma anche quello della botanica: è da questo confronto che possiamo meglio comprendere questa radicata tendenza dell’uomo a identificarsi, studiare, denominare, utilizzare il mondo vegetale. Di fatto il campo dell’etnobotanica risulta complesso e legato ai contesti naturali, sociali e culturali, interfacciandosi con altri campi del sapere che vanno da quello medico a quello religioso, da quello biologico a quello artistico. Nonostante di fatto le caratteristiche fisiche delle piante sono sostanzialmente differenti da quelle umane, i rapporti tra l’uomo e il mondo vegetale sono fittissimi, sin dai tempi più antichi, in quanto anche le società primitive utilizzavano una pianta o un albero a livello metaforico o di paragone con la propria esistenza. Basti pensare alle figure mitiche che nascono direttamente da elementi vegetali, oppure che al termine della loro vita e solitamente a seguito di particolari circostanze, di trasformano in piante o alberi, quasi mai in animali. Nel momento in cui questo confronto esiste, la comunità di riferimento prende sicuramente in considerazione i modelli botanici specifici del proprio habitat, dunque quegli esseri vegetali con i quali entra in contatto. Tuttavia, l’approccio dell’uomo nei confronti del mondo vegetale è stato graduale, tanto che in origine non si guardava alle caratteristiche scientifiche delle piante, ma le si conoscevano per il loro utilizzo, per le loro proprietà curative e mediche, nonché per la loro commestibilità e utilizzo nell’ambito culinario.

Successivamente la precisione descrittiva si è perfezionata sempre più, tanto che al IV secolo collochiamo le testimonianze più antiche di erbari, nei quali oltre alla descrizione vera e propria della pianta presa in considerazione veniva inserita una rappresentazione visiva dell’essere vegetale. Esempi di questo genere si sono diffusi rapidamente, in particolare con l’invenzione della stampa e a maggior ragione al giorno d’oggi. Tra gli studiosi del mondo antico Teofrasto è stato considerato il padre della botanica, nonché il primo a classificare le specie vegetali in quattro grandi categorie: gli alberi alti e legnosi, gli arbusti, i cespugli e l’erba. Questa classificazione sommaria era dovuta ad una maggiore agevolezza di individuazione delle specie nel mondo antico, nel momento in cui non si operava per mezzo di standard di precisione, perfezione e dettaglio, ma ciò che interessava era maggiormente affidato al punto di vista dell’agricoltore e del medico, dunque agli usi e alle proprietà curative che le piante possiedono. Le piante tra loro venivano paragonare e distinte anche all’interno della stessa specie, e da questi confronti nascevano anche denominazioni comuni, che sulla base delle caratteristiche univano specie acquatiche a specie terrestri. O ancora è frequente il caso in cui parti corporee degli animali venivano messe in relazione con le piante e ad esse trasferite, o in cui le piante venivano assimilate a organi interni del corpo umano. Queste caratterizzazioni derivano dalla somiglianza di elementi vegetali a quelli animali, o all’impiego a cui di fatto erano sottoposti, così da ordinare il mondo e le sue forme di vita. Ogni pianta così si fa carico di significati simbolici e non, nel quale operano diverse corrispondenze appartenenti alle forme del sapere dell’uomo e della cultura che li detiene, nascendo cosi la conoscenza etnobotanica, legata costantemente ai corpi di divinità, di uomini, di animali. I punti di osservazione legati maggiormente all’aspetto medico e agricolo vengono riunificati in un unico sapere omogeneo e di conoscenza dei vegetali nelle opere di Andrea Cesalpino (XVI sec.) e di Carl von Linné (XVIII sec.). Il celebre saggio Le pensée sauvage (1962), di Claude Lévi-Strauss, riporta numerose testimonianze dirette, nelle quali è possibile ravvisare che i popoli di habitat diversi detengono una grande conoscenza botanica, anche tra i non specialisti, dimostrando la determinante presenza delle piante nella vita di comunità diverse, nelle quali queste sono utilizzate e nelle quali ci si riconosce. Purtroppo nel corso del tempo i dati raccolti in tal senso non sono omogenei, e abbiamo a che fare con una molteplicità di fonti.

Ma è proprio la ricerca degli ultimi anni che si riserva il compito di universalizzare e rendere più completa la documentazione, per intensificare e migliorare la conoscenza di piante che nel corso della storia hanno avuto un grande valore, non solo naturalistico, ma anche antropologico, culturale, sociale ecc. Una maggiore facilitazione di questo lavoro è sicuramente dovuta anche a una semplicità di identificazione dei tratti degli esseri vegetali all’interno delle diverse etnobotaniche, nelle quali non interessa tanto il colore di una pianta o la dimensione delle sue foglie, quanto la forma e dimensione del fusto e le caratteristiche intrinseche, comportamentali e associative che la flora ha assunto, o che essa detiene. Anche per il mondo vegetale si assiste a forme tassonomiche di classificazione. Le tassonomie delle piante possono essere abbastanza complesse, poiché come è stato abbondantemente ricordato, non si determinano come taxa di un dato dominio solo determinate specie, ma all’interno delle specie stesse possono individuarsi altrettanti nodi, che dividono a loro volta le piante all’interno di una stessa categoria a seguito di caratteri diversi che a noi risultano utili e significativi. Un procedimento di questo tipo viene riservato soprattutto nell’ambito scientifico, poiché nell’ambito di nostro interesse, i parametri di classificazione sono ben altri, legati soprattutto agli effetti che le piante hanno nelle società di riferimento per il nostro interesse antropologico e botanico. Interesse che è maturato nel tempo, dalle testimonianze dei primi studiosi, soprattutto per il mondo greco, allo studio che oggi se ne fa per mezzo delle discipline etnoscientifiche, come nel nostro caso con l’etnobotanica.

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