Stoner
di Francesca Alessandra
Stoner di John Williams è un romanzo che può rientrare a pieno titolo nella categoria “casi letterari”. Pubblicato negli Stati Uniti d’America per la prima volta nel 1965, ebbe scarsissimo successo, finendo quasi subito fuori catalogo. In Italia uscì nel 2012 per Fazi Editore ed è poi stato ripreso dalla Mondadori nel 2020, diventando in poco tempo uno dei romanzi americani più amati. Ci sarebbe da chiedersi il perché di questo improvviso e (pressoché) condiviso successo; forse potrebbe aver ragione Paolo Giordano quando dice: «Stoner parla di resistenza ed è tra i migliori romanzi per tempi incerti che mi sia capitato di leggere. E questo, il nostro, è un tempo incerto».
Il titolo definitivo del romanzo focalizza l’attenzione sul protagonista, la cui vita viene seguita dal lettore per quarant’anni. Una vita comune, a tratti noiosa, che parte dalla nascita in una famiglia povera di agricoltori, preludio di un destino apparentemente già segnato, sul quale agisce però uno scarto, quando si profila la possibilità dell’iscrizione all’università presso la Facoltà di Agraria. Proprio durante il primo anno di università avviene l’incontro decisivo, quando, folgorato dalle lezioni di letteratura inglese, Stoner cambia facoltà e inizia il percorso che lo porterà a diventare professore universitario. Tutta la sua vita ruoterà attorno all’Università, alla sua professione di insegnante, in cui ritiene di non essere particolarmente bravo, ma che pure vivrà dei momenti di vivacità, entusiasmo e qualche riconoscimento sociale. Anche tutti le sue relazioni faranno parte, per un verso o per un altro, di quel mondo accademico. Lì ci saranno i suoi (pochi) amici e il suo grande avversario; lì conoscerà la ragazza che diventerà sua moglie e anche quella che sarà l’amore della sua vita; lì crescerà, fino ad un certo punto, sua figlia.
Ma niente di tutto questo pare avere reale importanza per lui, se non l’attaccamento, vitale, alla sua professione, al suo lavoro e ai suoi libri. In tutti i rapporti pare sempre soccombere, un anti eroe, un uomo qualunque che non riesce a dire no quando dovrebbe o a fare delle scelte determinanti. Sembrerebbe un fallito, un uomo irrimediabilmente mediocre, ma la miglior definizione che ho letto di questo romanzo è “la rivincita dell’uomo qualunque”, che proprio nel suo essere ostinatamente comune, acquista il suo valore assoluto. Soprattutto nelle bellissime pagine finali del romanzo.
L’edizione Mondadori della collana Oscar Moderni Cult è arricchita da un’intervista di Brian Woolley e da un dossier di lettere editoriali, dalle quali apprendiamo che il titolo scelto in precedenza dall’autore era The Matter of Love, che potrebbe fornire una chiave di lettura del romanzo.
Quand'era giovanissimo, Stoner pensava che l'amore fosse uno stato assoluto dell'essere a cui un uomo, se fortunato, poteva avere il privilegio di accedere. Durante la maturità, l'aveva invece liquidato come il paradiso di una falsa religione, da contemplare con scettica ironia, soave e navigato disprezzo, e vergognosa nostalgia. Arrivato alla mezza età, cominciava a capire che non era né un'illusione né uno stato di grazia: lo vedeva come una parte del divenire umano, una condizione inventata e modificata momento per momento, e giorno dopo giorno, dalla volontà, dall'intelligenza e dal cuore.
E forse, nonostante le apparenze, è stato proprio l’amore, in tutte le sue forme, a guidare i passi di William Stoner.
Non tutti potranno essere d’accordo con questa lettura, ma io credo che i grandi romanzi siano proprio quelli che ci pongono delle domande e che si lasciano interpretare dalla sensibilità del singolo lettore.