L’uomo è antiquato

di Alessia Messina

L’uomo è antiquato è un libro del filosofo e scrittore tedesco Günther Anders (pseudonimo di Günther Stern, 1902 - 1992). In questo libro, pubblicato per la prima volta nel 1956, il filosofo analizza la «condizione di funzione» in cui alberga l’uomo odierno inglobato nel sistema dell’ideologia economica del macroapparecchio-mondo (un mondo riempito ovunque da macchine e familiarizzato tramite la persuasione con la quale si presenta attraverso gli schermi che lo riproducono).

Dal titolo dell’opera L’uomo è antiquato l’autore vuole eccepire un’immagine dell’uomo che si auto-identifica come costruzione imperfetta al cospetto delle macchine costantemente ottimizzabili nelle loro prestazioni. L’uomo su cui riflette il filosofo è colui che si «vergogna» per la propria natura di creatura che nasce e muore; un uomo che è insostituibile al pari delle macchine paradossalmente libere e immortali in quanto continuamente ottimizzabili e sostituibili.

L’uomo antiquato è un uomo del tutto singolare nel voler operare una manomissione ex novo della propria natura: una manomissione che lo riduca a cosa non avente nulla da sentire o a cui pensare. Ma l’uomo è uomo e non cosa e per questo soffre provando un profondo perturbamento alla propria presenza. L’uomo antiquato è un uomo diviso in un insieme di funzioni che operano separatamente (alla stessa maniera di una macchina) e come divisum è decentrato da se stesso: è un uomo ridotto ad una condizione in cui ubique simul, essendo sempre altrove, non è mai in nessun luogo perché è «niente altro che una scandalosa non-macchina e un clamoroso nessuno». Un clamoroso nessuno in perenne soggezione rispetto ai pericoli che lo dominano (come la minaccia dello scoppio della bomba atomica), ma anche un clamoroso nessuno presente a se stesso come analfabeta emotivo, caratterizzato dall’incapacità di provare angoscia. Un uomo che, al cospetto della totale passività di ciò che è come persona, è incapace di sentire, pensare e comportarsi liberamente.

Non è forse vero che viviamo nell’illusione che esser liberi significhi poter far tutto? Sì! Ma questa è soltanto l’illusione che domina la nostra contemporaneità perché essere liberi non significa non avere alcun oggetto morale a cui fare riferimento e a cui indirizzare azioni e comportamenti.

Il problema è che ogni volta che tale oggetto morale di riferimento viene smarrito, allo stesso tempo ritorna ad aprirsi la possibilità che l’uomo possa esser capace di compiere qualcosa di catastrofico.

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