La Settimana Santa in Sicilia: tra estasi ed estetica nell'arte fotografica di Salvo Alibrio

di Pippo Lombardo

Sussulti estetici e spasmi emozionali colgono lo spettatore davanti agli scatti di Salvo Alibrio che in appena qualche secondo cattura secoli di atmosfere pasquali, restituendole al futuro per custodirne la memoria. Così la tradizione continua a raccontare per perpetuare un rito tra generazioni di uomini, di donne, di bambini, di vecchi che, alternandosi sul precario palcoscenico della vita, seguitano ad accalcarsi ancora attorno a quei magnifici fercoli dorati che trasportano un loro Gesù, in croce, deposto, risorto; una loro Maria, addolorata, pietosa.

La sacralità della rievocazione si manifesta in una mescolanza di corpi, umani e divini, da cui emana un afflato mistico che lascia senza parole, perchè insufficienti a spiegare l'accadimento di tanto stupore che lambisce moltitudini di anime che nell'occasione provano a ritrovare se stesse, la collettività di appartenenza, in un atto di purificazione che generi estasi fino all'identificazione con quel divino che l'arte ci restituisce in una forma tropologica generatrice di un'estetica che si richiama a modelli alti della cultura figurativa europea, di schiere di artisti che hanno prodotto tele, sculture come La crocifissione di Masaccio o il Cristo in croce di Salvador Dalì, il Cristo morto di Mantegna o quello di Hans-Holbein il Giovane, il Cristo risorto di Piero della Francesca o di Rubens, l'Addolorata di Carlo Dolci o di James Tissot, la Vespervild di Klagenfurt o la Pietà di Michelangelo, solo per citare tra gli esempi più conosciuti.

Gli "appunti" fotografici pasquali di Salvo Alibrio riassumono con abile maestria un "corredo" iconografico demologico vivente, palpitante, che tracima sudore e lacrime, che anela, che espia, che non dispera, pregando come atto propriziatorio di allontanamento di ogni male che si insinua subdolo e invisibile nelle pieghe della nostra fragilità umana. E processioni pasquali affollate, invadono religiosamente le strade di San Fratello, Prizzi, Modica, anzichè Barrafranca, Pietraperzia, Enna.

E difronte a questa incontenibile sicilianità devozionale sembra quasi di assistere ad antichi riti ancestrali, di cui il distratto uomo moderno ne ha perso le tracce. Così Salvo Alibrio si assume l'oneroso e delicato compito di recuperare, da siciliano, gli aspetti più autentici, profondi nel tempo e nello spazio, di quelle tracce, brandendo la macchina fotografica come arma di pace a difesa di un patrimonio inestimabile che ogni anno trasforma i nostri spazi urbani rumorosi, inquinati, spesso degradati della nostra alienante modernità in un vivificante teatro rituale, religioso, anagogico, dove ritrovare i nostri avi, dove soprattutto ritrovarci nello spirito.

Un rito collettivo che potrebbe sembrare a prima vista una drammatizzazione tribale, segno di arretratezza, ma che invece reppresenta forse l'ultima frontiera di un mondo che disorientato baratta la propria umanità con l'apparente benessere consumistico, proprio quella stessa umanità che, però, prepotente nelle ricorrenze pasquali riemerge con tutta la sua forza, come la bianca luce squarcia le ombre nere delle immagini fotografiche di Salvo Alibrio, alla ricerca della Verità smarrita in una routine avvilente che ci omologa sempre più, e così che la sua arte fotografica, supportata da una straordinaria sensibilità, travalica la contingenza, provando a consegnarsi al futuro, con la consapevolezza che: “Fare una fotografia significa partecipare della mortalità di un'altra persona (o di un'altra cosa) ed è proprio isolando un determinato movimento che tutte le fotografie attestano l'inesorabile azione dissolvente del tempo.” , come afferma Susan Sontag in Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società (1977).

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