Il Teatro degli Orrori e Cesare Pavese: lavorare stanca.
Di Noele Di Nuzzo
Il Teatro degli Orrori è stato per quindici anni un faro, anche di speranza, nel panorama dell’alternative rock italiano. Il loro scioglimento avvenuto il 14 giugno 2020 ha lasciato una delle eredità più pesanti, in termini musicali, che nessuno forse ha ancora avuto il coraggio di cogliere.
Lo stile della band è inconfondibile e questo cresce e si modifica attraverso i loro quattro album, l’ultimo nel 2015. Sibili elettronici a ricordare elettrocardiogrammi piatti, chitarre distorte, poliritmie, rabbia e armonie sono solo alcuni dei tratti che rendono il TdO una band unica. I temi trattati variano da disco a disco: Amore e violenza, migrazione di corpi e anime, crisi interiore e della società. Il manifesto, a mio parere, è il brano “Majakovskij”, una recita della poesia “All’amato me stesso” (1916) di uno dei più autorevoli poeti russi del ‘900 Vladimir Majakovskij.
“Se io fossi buio, come il sole, ma perché, ma perché mai dovrei io abbeverare con il mio splendore il ventre dimagrato della terra?”
Nel 1936 viene pubblicata “Lavorare stanca” la prima raccolta di poesie di Cesare Pavese. Come spiega Italo Calvino nell’introduzione all’opera il titolo è un tributo ad Augusto Monti e al dualismo tra spensieratezza e serietà, quasi cupezza.
Nel 2015 nell’album Il Teatro degli Orrori dell’omonima band, la traccia numero 3 è “Lavorare stanca”, che descrive l’ipotetica fuga da un mondo moderno che ingabbia nei suoi apparentemente sempiterni cicli.
Ma quindi c’è un collegamento tra Pavese e TdO?
Nella mia personalissima analisi sì. La domanda che mi sono posto è: “qual è questo lavoro che stanca?”, “Ogni lavoro è stancante?”, “C’è una qualche origine politica?”.
La risposta è nel diario di Pavese pubblicato postumo nel 1952 “Il mestiere di vivere”. Ecco la risposta - personalissima - che mi sono dato. Non è un lavoro qualsiasi che stanca, non sono i campi delle Langhe di Pavese, non sono gli uffici che Pierpaolo Capovilla canta con il suo rock. È la vita stessa che stanca, la vita vista come lavoro, come impegno nell’arrivare a fine mese, l’arrancare a scuola, in ufficio, in famiglia, il mantenere mille volti con fatica, pirandellianamente dimenticandosi del vero sé.
È forse questa la vita nell’Eden scordata, la condanna al sudore della fronte, non quello figlio della schiena china che coltiva, ma quello dei risvegli dagli incubi la notte.
Come in “Vivere e morire a Treviso”, ultima traccia dell’album “Il mondo nuovo”, nel dialogo tra una coppia di anziani avviene in un attimo, in un battito di ciglia, l’essere inglobati, masticati e sputati via, costretti a “spezzare la schiena dei giorni feriali” senza aver né vissuto né conosciuto a fondo la persona con la quale si è deciso di condividere la propria esistenza.
“Eppure sembra ieri, mano nella mano, io e te, così preziosi. […] I figli, si sa, hanno altro a cui pensare, non sanno quasi niente di te, del resto nemmeno io ti ho mai capita fino in fondo”.